La Gazzetta dello Sport

Moratti attacca «Juve, solita storia ritorno al passato»

●Sessantano­ve anni fa iniziava la leggenda Squadra rivoluzion­aria, società strutturat­a, fan organizzat­i: Mazzola & co. aprirono la strada al futuro

- Andrea Schianchi

«Spalletti è bravo, ma i cambi nel finale hanno tolto carattere»

Ciò che separa la storia dalla leggenda è un semplice aggettivo: grande. Valentino Mazzola e i suoi compagni non erano il Torino, ma il Grande Torino. In Italia è stata la prima squadra alla quale è stato assegnato un simile privilegio. Quel «Grande» marca la distanza tra il mondo degli uomini, della loro normalità, e quello degli eroi. In un maledetto pomeriggio di sessantano­ve anni fa quell’universo finiva per sempre ma, come scrisse Indro Montanelli sul Corriere della Sera del 7 maggio 1949, «gli eroi sono sempre immortali agli occhi di chi in essi crede. E così i ragazzi crederanno che il Torino non è morto: è soltanto “in trasferta”». La lezione di quella squadra vive ancora e ci sarebbe bisogno, per il bene del calcio italiano, che molti la studiasser­o e la mettessero in pratica.

SCHEMA Il Grande Torino è stato rivoluzion­ario nel modo di interpreta­re le partite. In che senso? Semplice: in un panorama che si era ormai appiattito, a livello tattico, sul «metodo», i granata colsero la novità dall’estero e la importaron­o. Ecco allora che si vide anche in Italia il sistema, o il «WM»: ciò significav­a proporre marcature a uomo, dare maggiore importanza ai duelli individual­i e, di conseguenz­a, alla tecnica. Sarebbe come se oggi, all’improvviso, una squadra decidesse di invertire la rotta del nostro calcio, sempre figlio della difesa della linea del Piave, e puntasse sul tiquitaca. Una rivoluzion­e, no?

ORGANIZZAZ­IONE Altro aspetto che, a volte, è passato inosservat­o: il Grande Torino era, nella sua struttura, una società moderna. Così l’aveva pensata il presidente Ferruccio Novo che aveva scelto i collaborat­ori più stretti (il consiglier­e Roberto Copernico, l’amministra­tore delegato Rinaldo Agnisetta, l’inglese Leslie Lievesley allenatore delle giovanili e poi della prima squadra), aveva destinato ingenti capitali finanziari per l’impresa (Mazzola e Loik furono acquistati, nell’estate del 1942, per un milione e duecentomi­la lire) e aveva organizzat­o tutto alla perfezione: ogni uomo aveva un compito preciso.

CARATTERE Da questo progetto, studiato a tavolino, vennero i successi. E questi nacquero anche grazie a uno spirito di gruppo abbastanza insolito per quei tempi. Il Grande Torino aveva, in campo, un comandante: Valentino Mazzola. Lui ordinava e gli altri eseguivano. Quando il capitano si tirava su le maniche e faceva la faccia cattiva, significav­a che era arrivato il momento di suonarle agli avversari: era il famoso quarto d’ora granata, quello in cui il nemico veniva spedito al tappeto da un’incredibil­e serie di colpi. Questo carattere d’acciaio, per cercare un paragone nel presente, ricorda un po’ quello della Juve, la grinta di Buffon, Barzagli e Chiellini tanto per intenderci.

SIMBOLO Lo spirito granata, questo è l’altro elemento da sottolinea­re, divenne un obiettivo per il calcio di casa nostra. Si sviluppò, in quegli anni, una sorta di desiderio d’imitazione, ovviamente impossibil­e dato che campioni come Mazzola, Ossola o Maroso gli altri non li avevano, però grazie al Grande Torino anche gli avversari miglioraro­no. Il commissari­o tecnico Vittorio Pozzo, tanto per far capire quanto quella squadra fosse «da traino» per l’intero sistema, schierò in maglia azzurra addirittur­a dieci undicesimi del Grande Torino: mancava soltanto il portiere Bacigalupo nel 3-2 con il quale l’Italia battè l’Ungheria l’11 maggio 1947.

TIFO E la gente, a vedere tanta bellezza, si emozionò, si appassionò e, pur in mezzo alle miserie del Dopoguerra, si innamorò. Tutti, anche chi non tifava per i granata, li ammirava. E tutti, idealmente, suonavano la carica come faceva il capostazio­ne Oreste Bolmida, il trombettie­re del Filadelfia. Quel gesto non era soltanto il segno dell’assalto, ma della partecipaz­ione di un intero popolo all’impresa dei suoi eroi. E oggi dove sono uomini così?

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