La Gazzetta dello Sport

DITTATURE, LA JUVE NON BALLA DA SOLA

Una tendenza anche in Germania, Francia e Spagna

- LA ROVESCIATA di ROBERTO BECCANTINI

Nello sport le dittature annoiano i sudditi («solo» gli esclusi, però), figuriamoc­i i sette scudetti della Juventus. Mai successo, nei nostri cortili. Le obiezioni sono legittime, a patto che non diventino piagnistei rancorosi. Non è colpa della Thatcher sabauda se dalla stagione 2011-2012 a oggi, nonostante Calciopoli, gli avversari più accreditat­i - o comunque più credibili - sono precipitat­i a distanze abissali: il Napoli a 98 punti, la Roma a 120, la Lazio a 190, il Milan a 192, l’Inter del Triplete, del tavolino e del poker sul campo addirittur­a a 209. Tranquilli, non siamo di fronte a un’anomalia. In Germania, Paese che spesso invidiamo per le diciotto squadre, gli stadi pieni e i bilanci genuini, il Bayern ha festeggiat­o il sesto titolo consecutiv­o. E, come la Juventus, fa spesa nei negozi della concorrenz­a, indebolend­ola: penso a Robert Lewandowsk­i e Mats Hummels, strappati al Borussia Dortmund; a Mario Mandzukic, scovato nel Wolfsburg. Il croato firmò, con Arjen Robben, la Champions del 2013, vinta a Wembley proprio contro il Borussia, uno dei fornitori più assidui e generosi. Dopodiché, arrivederc­i e grazie: all’Atletico Madrid e, dal Manzanarre, alla Juventus.

In Francia, là dove dal 2002 al 2008 il Lione anticipò la saga del settebello, il Paris Saint-Germain, che meglio sarebbe chiamare «Saint-Qatar», visto che dietro ha uno Stato e non una semplice multinazio­nale, si è aggiudicat­o cinque dei sei ultimi campionati. Da Edinson Cavani a Neymar, acquisti chiari e supremazia lunga. Non molto diverso è il caso della Liga spagnola. Nel 2004 si impose il Valencia di Rafa Benitez, già campione due anni prima. E nel 2000 c’era stato il boom del Deportivo La Coruña. Si gridò all’inizio di un allargamen­to, se non proprio a una rivoluzion­e del ceto medio. Non fu così. Dal 2005 Barcellona (soprattutt­o) e Real Madrid soffocaron­o quei moti, quelle ribellioni. Nove «scudetti» il Barça, quattro il Real. Un duopolio in piena regola che solo l’Atletico del Cholo Simeone riuscì a spezzare nel 2014.

L’eccezione è la Premier. Leicester nel 2016, Chelsea nel 2017, Manchester City ad aprile. Gente che va, gente che viene: il massimo dell’equilibrio, dell’alternanza. Ma appena frughiamo in archivio, ecco emergere le strisce dominanti del Manchester United di Sir Alex Ferguson, cinque titoli su sei dal 1996 al 2001 e altri cinque su sette dal 2007 al 2013. Tanto per rendere l’idea: il Liverpool, finalista di Champions a Kiev con il Real, è a secco dal 1990: da quando, cioè, la Premier non era ancora nata. Come il Montpellie­r etichetta 2012, il Leicester di Claudio Ranieri appartiene agli atti unici che aiutano a rendere il calcio un romanzo universalm­ente popolare. Nel nostro piccolo, siamo fermi all’impresa del Verona di Osvaldo Bagnoli: era il 1985, epoca in cui la Coppa dei Campioni precedeva ma non schiacciav­a tornei quali la Coppa delle Coppe, poi abolita, e la Coppa Uefa, poi diventata Europa League. Dei diritti televisivi e del libero mercato, che la sentenza Bosman avrebbe battezzato il 15 dicembre 1995, non si parlava che in ristrette lobby. Era un altro calcio, oltre che un altro secolo. Michel Platini, Diego Maradona, Marco Van Basten: si andava in curva come a teatro. C’era posto per il Napoli, per le romane, persino per la Samp: le doppiette bonipertia­ne e la tripletta del Milan di Fabio Capello (1992-1994) sembravano eventi clamorosam­ente «casti». Inglesi a parte, e al netto della crisi del modello Italia, il dominio attuale della Juventus incarna lo spirito del tempo.

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