DINASTIA WARRIORS TRA SEGRETI E TALENTI
●Cavs schiacciati 4-0: 3° titolo in 4 anni. Durant Mvp E Kerr esalta Curry: «Un essere umano incredibile»
Ora chiamatela dinastia. Perché i Golden State Warriors col successo in gara-4 a Cleveland sui Cavaliers di LeBron non solo hanno conquistato il terzo titolo degli ultimi quattro anni – e il filotto è sfuggito solo in gara-7 alle Finals nel 2016, dopo aver stabilito il record di vittorie in stagione regolare –, ma si sono guadagnati un posto nella storia Nba di fianco delle squadre indimenticabili. Quello della Q Arena è stato un monologo: è finita 108-85. I 23 punti di scarto hanno regalato ai Warriors il sesto titolo di franchigia, quanti quelli dei Chicago Bulls, dietro solo Boston e Lakers, e hanno eguagliato il massimo scarto in una partita esterna di finale, dei Celtics 1981. Il 4-0 con cui hanno travolto la Cleveland di James, uno dei giocatori più forti di sempre, significa primo «cappotto» dalle Finals 2007, quando San Antonio spazzò via proprio i Cavs di un giovanissimo LeBron. Numeri da padroni dell’Nba. Quando a Curry, 37 punti in gara-4, hanno chiesto d’inquadrare la dinastia Warriors, Steph (col sigaro) ha frenato: «Non ho idea. So che sono un tre volte campione Nba. Avremo tempo nelle nostre vite per discutere di questo...».
IL VOLTO DEI GUERRIERI «Ha cambiato il gioco» urlava West indicando Steph, post gara. Eroe umano. Piccolo, non super muscoloso, intelligente, senza gli eccessi di testosterone di altre stelle Nba. E poi ha reclutato e accolto a braccia aperte Durant, che pure gli ha «fregato» due titoli Mvp delle finali, quest’ultimo al fotofinish. Spiega coach Kerr: «Steph è una delle persone più altruiste che si possano incontrare, un essere umano incredibile». E un incredibile tiratore: prima della sua consacrazione si diceva che una squadra di tiratori non potesse avere l’ultima parola in Nba. Non si dice più: le 51 triple a bersaglio dei Warriors sono record per una Finals su
4 gare.
SELF MADE Nel Paese dei selfmade men, i Warriors si sono fatti da soli. Partendo dal Draft. Curry, Thompson e Green sono scelte straordinarie, coltivate al sole della California. L’ingaggio dello svincolato Durant, due estati fa, è stato il colpo di grazia agli avversari. Silver, il Commissioner, sottolinea che l’Nba «premia l’eccellenza, che Golden State rappresenta», ma è costretto a prendere atto dello squilibrio Ovest/Est e della presenza di una squadra dominante in un sistema fondato sulle pari opportunità. Anche se poi, contro Houston, i Warriors hanno dovuto vincere gara-7 per guadagnarsi le Finals.
PROSPETTIVE I Warriors rappresentano una dinastia d’oro pure come brand. I successi del marketing sono paralleli a quelli sul parquet. Golden State ha fatto dell’opulenza della limitrofa Silicon Valley un marchio modaiolo da California bene, che s’incentiverà col trasferimento da Oakland a San Francisco. I Warriors vendono il loro prodotto anche mediaticamente: franchigia che non conosce la parola ermetismo, tipica dei trionfi Spurs. L’impressione è che con questo gruppo di talenti i Warriors debbano temere soprattutto se stessi. Difficile far coesistere 4 All Star, Durant, Curry, Thompson e Green. E Green e Durant hanno ego ingombranti. West s’è fatto scappare: «Sareste scioccati dal sapere le cose successe dietro le quinte». Livingston aggiungeva: «Complimenti a Kerr per come ha gestito i nostri casini». Il g.m. Myers chiosava: «La luna di miele è finita, ora è un matrimonio». Col pericolo d’implosione, prospettiva più temibile della crescita della concorrenza. Anche se Houston sarà ancora rivale credibile. E LeBron, che potrebbe sconfinare a Ovest, antagonista temibile. Spiegava Thompson: «Sino all’ultima sirena non puoi mai essere sicuro di averlo battuto». Eppure i Warriors l’hanno fatto in tre delle ultime quattro Finals: dinastia più forte del Re.
LA CHIAVE L'opulenza è il segno distintivo di Golden State: l'unico pericolo è l'implosione per eccesso di talenti