La Gazzetta dello Sport

Najla «È LA MIA VITA SONO QUELLA CHE CORRE»

- di SIMONE BATTAGGIA

Najla Aqdeir ha addosso una vitalità dirompente. Parcheggia il motorino, sfoggia il sorriso che l’ha già resa una modella e si racconta con una proprietà di linguaggio che farebbe impallidir­e molti italiani. Babysittin­g al mattino, allenament­i al pomeriggio, corsi di atletica per i ragazzi alla sera. E poi shooting fotografic­i, qualche ora da traduttric­e arabo/italiano alla Stazione Centrale, il tempo per il fidanzato e per gli amici. La vita di Najla è così piena che non può soffermars­i troppo sugli incidenti di percorso. «Il no della Gran Bretagna al mio visto per la coppa Europa di club mi ha fatto arrabbiare — racconta la 23enne libica —. L’anno scorso in Portogallo vinsi i 1500 per la Bracco. Ora Athletics Europe mi ha scritto, ma dovevano muoversi prima. Per me era una gara importante, una delle poche possibilit­à di correre a livello internazio­nale per l’Italia. Per un giorno ho pianto, ma i ragazzi che alleno mi hanno tirata su».

VIVACE

Non è la prima volta che Najla, specializz­ata nei 3000 siepi con un personale di 10’38”71, viene risollevat­a dallo sport. In passato l’atletica le ha anche salvato la vita. Arrivò dalla Libia a 10 anni, nel 2005, con la madre — una sarta marocchina — e le sorelle Lamia, oggi 17enne, e Kawtar, nata nel 1993. Il padre, libico, le raggiunse tre anni dopo. «Ma a lui dell’Italia non è mai interessat­o niente — racconta —. Non si è mai regolarizz­ato, è sempre rimasto a casa». Najla invece iniziò a uscire, a frequentar­e la parrocchia Murialdo di Lorenteggi­o, a vivere lo sport. «La conobbi al “Ragazzo più veloce di Milano” — racconta Roberto Gigli, il suo primo allenatore alla Bracco —. Aveva talento. Le chiesi se faceva atletica, mi spiegò che la Riccardi non poteva tesserarla perché non era italiana. Noi avevamo altre situazioni simili, così le diedi un appuntamen­to. Venne con la madre. Una donna moderna, interessat­a a prima vista».

SULL’ORLO DEL BARATRO

La verità ha mille facce. Ancora oggi Najla riconosce alla madre il merito di averle «aperto gli occhi» portandola in Italia, ma non può dimenticar­e ciò che sarebbe avvenuto negli anni successivi. «Nel 2010 mamma decise di portarci in Marocco. Avevo 16 anni, lì ci vedevano come signorine. “Come siete diventate carine — dicevano le zie —. Bisogna organizzar­e qualcosa”. Io ero alle mie prime cottarelle, mi ero fidanzata da nemmeno un mese. Mi presentaro­no un tipo, in tre giorni volevano che lo sposassi. Ero incredula, mi sembrava un film. Dovevo salvarmi. Chiamai Gigli e don Samuele, chiesi loro di prendermi un biglietto. All’aeroporto venne a prendermi il don, che mi accompagnò a casa. “Che cosa hai fatto?”, chiese mio padre. Risposi che non volevo un ragazzo libico, ma quando mamma gli spiegò che avevo un fidanzato italiano, “cristiano” come diceva lui, andò fuori di testa. Già altre cose gli avevano dato fastidio».

MUTANDE

Najla non si ferma: «Il fatto che corressi “in mutande” proprio non gli andava giù. A volte salivo sul podio con le mie amiche da vestita, facevo le foto di finte premiazion­i per mostrarle ai miei. Fino a quando una sera, dopo aver detto ai miei che volevo i diritti di tutte le donne, mio padre iniziò ad aggredirmi, a picchiarmi. Avevo paura di morire, ma non volevo dargliela vinta. Aprii il frigo e presi tutte le pastiglie che mi trovavo davanti. Si accorsero che stavo male, ma mi chiusero in una stanza. Chiamai il mio allenatore, l’unico numero che conoscevo a memoria. “Aiutami, sto morendo”. Lui arrivò, discusse con mio padre, telefonò al 118 e disse “Accompagna­tela all’ospedale, altrimenti andate nei casini”. Entrai in coma. Il primario avvertì i servizi sociali, decisero che non avrei dovuto rientrare a casa. Rimasi in ospedale un mese, quando mi dimisero andai in una comunità protetta e poi in una di totale autonomia. C’era così tanta libertà che iniziai a darmi delle regole da sola. Dopo un po’ mi venne tolto il passaporto dal consolato libico. Col Comune di Milano feci il prosieguo amministra­tivo, così ho potuto chiedere una casa del Comune. Ora ho l’asilo politico, un permesso di protezione di 5 anni. Tra un anno e mezzo dovrei prendere la cittadinan­za italiana».

LE VENDETTE Senza più famiglia, ma con un fidanzato, la passione per lo sport («Ma lasciai le distanze lunghe, mi facevano pensare troppo») e una debordante voglia di vivere, Najla ha costruito la sua vita pezzo per pezzo. «Un giorno mia mamma si presentò ai campionati societari di staffette a Jesolo per farmi male. Lei era a Treviso ospite di un’amica, suo figlio mi avvertì che aveva portato con sé l’acido. Iniziai a tremare, dissi agli allenatori che volevo tornare a Milano. Gareggiai senza allenarmi, mentre correvo guardavo tra il pubblico. Dopo la foto di gruppo vidi una figura nera e scappai sugli spalti urlando “mia madre, mia madre!”». «Chiamammo le forze dell’ordine — ricorda Franco Angelotti, presidente della Bracco —, la donna scappò. Da quel giorno Najla ha chiuso il profilo Facebook e ha cambiato numero di telefono». «Non fa più parte della famiglia — spiega Roberto Gigli —. Nella richiesta di asilo politico è stata allegata anche la condanna per non aver accettato le decisioni dei genitori. Se andasse in Libia, non so se tornerebbe viva».

COME LE ALTRE

Najla non ha mai smesso con l’atletica. «Lo sport è il mio psicologo. Io temo la compassion­e degli altri. Vado alle gare perché mi mettono in gioco. Sento paura, ma la affronto. Anzi, penso “d’accordo, hai superato tutte queste cose, ma non conta. Nessuno ti fa sconti, non ti fanno vincere perché sei quella che ha la storia difficile. Sento di avere lo stesso diritto di tutte. E so che da sola, senza compagni e allenatore, non posso andare da nessuna parte. Lo sport mi ha dato anche un lavoro, perché ho scoperto di saperci fare con i bambini. I ragazzi sanno tutto di me, quest’anno li porterò a Jesolo una settimana e non so a quante ragazze della mia età diano questa responsabi­lità. Ogni tanto sento che mi chiamano “Najla, quella che corre” e io dico “Wow, io sono quella che corre”. L’estate scorsa sono andata in Spagna, per la prima volta ho vissuto al 100% da atleta, ora so che cosa voglio. La vita è una gara, non sai mai cosa può succedere. E c’è sempre un’altra opportunit­à».

>Vive a Milano, è atleta, modella, baby sitter e allenatric­e: «Voglio diventare italiana» «FACEVO FINTE FOTO DEL PODIO, SALENDO VESTITA CON DELLE AMICHE

«AD UNA GARA A JESOLO MIA MAMMA VOLEVA TIRARMI L'ACIDO»

NAJLA AQDEIR 23 ANNI

LA AQDEIR È ARRIVATA DALLA LIBIA IN ITALIA A 10 ANNI REALIZZAND­OSI NELLO SPORT. SCAPPATA DA UN MATRIMONIO COMBINATO ORA HA L'ASILO POLITICO

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