La Gazzetta dello Sport

La nazionale dei rifugiati

Dall’Africa e dall’ex Jugoslavia quanti profughi al Mondiale

- Stefano Boldrini INVIATO A MOSCA

●Mandanda, Moses, Xhaka, Sisto, Rakitic, Januzaj e altri «compagni» fuggiti dai conflitti sono stati accettati da altri Paesi per i quali adesso giocano

C’è una nazionale speciale nel Mondiale di Russia e ha già vinto un titolo, il più importante: quello della vita. È l’undici-base dei rifugiati, giocatori dal passato tormentato che hanno avuto fortuna e si sono affermati grazie al calcio. Undici uomini su milioni di milioni, scappati dalle guerre che hanno tormentato il pianeta dagli anni Novanta al primo decennio del 2000. Un dramma senza fine, perché c’è sempre un angolo del mondo dove esplode la violenza e c’è sempre una carovana di persone costretta a fuggire, a percorrere chilometri, ad attraversa­re i mari e a superare nuove frontiere. Uomini, donne, anziani e bambini obbligati a ripartire da zero, a subire i soprusi e la malvagità dei mercanti di esseri umani, a chiedere asilo politico e nuovi documenti, a cercare un buco di casa per esercitare un diritto elementare: vivere. Ieri è stata la giornata mondiale dei rifugiati e anche Francesco Totti sui social ha espresso il suo sostegno a queste persone.

LA FORMAZIONE Questa squadra è stata selezionat­a dal Fare (Football Against Racism in Europe), organizzaz­ione nata nel 1999 a Vienna e ora di base a Londra. In porta Steve Mandanda (Belgio); in difesa Victor Moses (Nigeria), Dejan Lovren (Croazia), Vedran Corluka (Croazia) e Milos Degenek (Australia); a centrocamp­o Granit Xhaka (Svizzera), Luka Modric (Croazia), Ivan Rakitic (Croazia); in attacco Adnan Januzaj (Belgio), Josip Drmic (Svizzera) e Pione Sisto (Danimarca). C’è anche un c.t.: Vladimir Petkovic, ex allenatore della Lazio, oggi c.t. della Svizzera. Non è un rifugiato, ma ha lavorato nella Caritas durante gli anni della guerra nella ex Jugoslavia: si occupava di disoccupat­i e aiutava la persone nella formazione lavoro.

MI CHIAMO LOVREN Oggi questi calciatori sono ricchi, possiedono case, hanno esteso il loro benessere alle famiglie, conducono esistenze sicure e hanno documenti che li mettono al riparo da qualsiasi rappresagl­ia o da internamen­ti odiosi, ma conservano nello sguardo la malinconia del loro passato. Dejan Lovren, difensore croato del Liverpool, conosciuto personalme­nte quando giocava nel Southampto­n e del quale siamo debitori di un passaggio in auto dal centro tecnico alla stazione ferroviari­a, racconta: «Quando vedo che cosa accade oggi nel mondo con i rifugiati, ripenso sempre al mio passato, a come le persone non ci volessero nel loro Paese. Capisco che la gente cerca di proteggers­i, ma ci sono esseri umani senza case. Non è colpa loro. Lottano per le loro vite e per quelle dei loro figli. A questa gente disperata bisogna dare una possibilit­à». MI CHIAMO MOSES Victor Moses, nigeriano del Chelsea, è nato a Lagos ed è figlio di un pastore cristiano. All’età di 11 anni, si ritrovò improvvisa­mente orfano, quando esplose la violenza religiosa. I suoi genitori furono uccisi. Una settimana dopo, alcuni parenti, da tempo stabilitis­i in Gran Bretagna, pagarono il volo aereo a Victor. Il ragazzo sbarcò nel Regno Unito come richiedent­e asilo. Una volta sistemate le pratiche, cominciò a frequentar­e la scuola e a giocare calcio. Gli osservator­i del Crystal Palace lo scoprirono quasi subito e la vita di Moses cambiò. Nelle due stagioni di Conte al Chelsea, Victor, reduce da tre stagioni di continui cambiament­i di club, ha trovato finalmente stabilità. Conte lo promosse titolare nell’estate 2016 e Moses fu una delle chiavi della conquista del titolo nel 2017: «Ha una forza fisica impression­ante ed è un ragazzo straordina­rio», le parole di Paolo Bertelli, preparator­e atletico dei Blues, uomo da sempre molto attento alle questioni sociali. MI CHIAMO MANDANDA Steve Mandanda, portiere del Marsiglia, dove è tornato dopo un’annata al Crystal Palace, è nato a Kinshasa, ex Zaire. Scappato con la famiglia dall’inferno del Congo, ha trovato passaporto e sicurezza in Francia. Anche per questa ragione, ha deciso di giocare con la nazionale di Deschamps.

MI CHIAMO DEGENEK Milos Degenek, difensore australian­o, è approdato nel Paese più lontano del mondo. Milos è nato in Croazia, ma appartenev­a alla comunità serba, riparata a Belgrado e costretta a vivere nella povertà dei rifugiati. Nel 1999 scoppiò la guerra del Kosovo e Belgrado fu bombardata dagli aerei della Nato. Un anno dopo, la famiglia Degenek partì per Sydney. Oggi Milos indossa la maglia dell’Australia. «Ho visto cose che non potete immaginare: due guerre, la fame, la paura. Avevo 18 mesi quando lasciai con la mia famiglia la città di Knin, a bordo di un trattore. Il viaggio fino alla Serbia durò 9 giorni. Nel 1999 Belgrado fu bombardata. Io giocavo con i miei amici per strada e quando suonava la sirena scappavamo nei bunker. Certe volte eravamo costretti a restare nascosti, al buio, per due giorni interi, senza cibo. Ma la cosa più dura era l’incertezza. Non sapevi se il giorno dopo ti saresti svegliato e se quello che stavi vivendo era l’ultimo della tua vita. Sentivi la terra tremare. Quando riemergevi in superficie, vedevi i crateri delle bombe e i corpi dei morti. Odio la parola guerra e quando mi accorgo che nel mondo scoppiano nuovi conflitti, mi sale una rabbia incredibil­e. Queste tragedie portano morti, disperazio­ne, povertà. Non so perché accadano, non sono un politico, ma le guerre sono orribili. Mio padre correva gli ottocento metri nella ex Jugoslavia. Uno dei suoi compagni di allenament­o lavorava alla Croce Rossa. Fu lui a parlargli di un programma di aiuti umanitari che avrebbe potuto permettere alla famiglia di trasferirs­i in Australia. È stata la nostra salvezza».

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