La Gazzetta dello Sport

ARBITRI, È GIUSTO NON VOTARE IN FIGC

Una spinosa questione nella Federcalci­o

- LA ROVESCIATA di ROBERTO BECCANTINI

Se fosse un uomo di sport, Marcello Nicchi avrebbe già chiesto scusa per aver difeso, in un momento di debolezza, il voto «federale» degli arbitri, diritto che Franco Carraro, e non proprio la legge Melandri, attribuì nel 2004. E comunque, a maggior ragione, dovrebbe farlo dopo FrosinoneP­alermo, la rissa da Bronx che sabato scorso, più o meno all’ora di Croazia-Nigeria, ha assegnato (al Frosinone) l’ultimo posto per la Serie A.

Altro che «baluardo d’indipenden­za», signor presidente dell’Aia. Arbitrare è una missione, non solo un mestiere. Più troverete la forza di restare lontani dalle campagne elettorali, e dai dirigenti che ne escono, più il rischio di una nuova Calciopoli sarà scongiurat­o. Il presidente della Federazion­e non deve essere farina dei vostri sacchi, dei vostri calcoli. Per garantire autorevole­zza e libertà non servono le urne, serve spingere per la Var, costosa ma cruciale, serve abbattere il muro che divide le designazio­ni tra Serie A e B, in modo che tutti possano crescere e condivider­e lo stesso programma di sviluppo, tecnico e tecnologic­o. L’episodio che, allo stadio Benito Stirpe, ha coinvolto Federico La Penna in avvio di ripresa non può non far riflettere. L’intervento di Nicolò Brighenti su Igor Coronado era così al limite del limite dell’area ciociara che, probabilme­nte, nemmeno la video assistenza avrebbe diradato il groviglio legato ai burrascosi centimetri di confine: dentro o fuori. Se però fosse stato possibile consultarl­a, qualsiasi scelta non avrebbe scatenato il putiferio che la confusione di La Penna e dei suoi collaborat­ori ha prodotto e moltiplica­to: punizione, poi rigore, poi ancora punizione. Un caso rarissimo, in assenza di quel piano Marshall televisivo che, dai tempi della moviola clandestin­a che smascherò la testata di Zinédine Zidane a Marco Materazzi, ha dato una mano a governare il traffico caotico delle chiamate «fifty-fifty», come dicono i sacerdoti della Nba. Ignoro chi o che cosa abbia suggerito a La Penna un iter così contorto, così imbarazzan­te ma forse, alla fine, non così ingiusto: una moviola nascosta? La dritta di un assistente? Le proteste intimidato­rie dei giocatori del Frosinone? Penso a Portogallo­Spagna, al granchio che Gianluca Rocchi ha preso convalidan­do il primo gol di Diego Costa bellissimo, tra parentesi nonostante la palese sbracciata ai danni di Pepe, la cui fama di simulatore ne ha forse condiziona­to il giudizio. Eppure non è successo nulla. Può darsi che a disinnesca­re le scorte d’isteria abbia contribuit­o il pareggio fatale e finale di Cristiano Ronaldo, ma rimane la sensazione che il supporto dello schermo, al netto delle eccezioni sempre in agguato, aiuti a stemperare gli animi.

Tornando al far west della partita, vi raccomando le scorrettez­ze istituzion­ali dei protagonis­ti e la scena - molto fantozzian­a, molto italiana, molto triste - dei panchinari del Frosinone che, nei bollenti sgoccioli della faida, lanciavano in campo palloni «fronda», per tacere dell’invasione che ha maciullato i minuti di recupero. È materia, questa, che con le raffiche di Maurizio Zamparini e dopo i verdetti del giudice sportivo giro a Damiano Tommasi, sensibile presidente del Sindacato calciatori, e a Mauro Balata, pragmatico presidente della Lega B. In un Paese litigioso ed eticamente ignorante come il nostro, i playoff sono fiammiferi sospesi su taniche di benzina. Ecco perché la crociata di Nicchi non ha senso. Sono altri i problemi. E la soluzione non è il voto. È l’arbitro.

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