La Gazzetta dello Sport

Brown «A Torino difesa, buoni tiri e italiani al top»

IL COACH FIAT E MITO NBA IN GAZZETTA: «TUTTI VOGLIONO IMITARE I WARRIORS, MA QUELLE TRIPLE RIESCONO SOLO A CURRY E DURANT» «TORINO: DIFESA, BUONI TIRI E ITALIANI DI VALORE»

- di MASSIMO ORIANI

Come si è innamorato del basket?

«Mio papà è morto a 44 anni quando ero ancora un ragazzino. Ci trasferimm­o da Brooklyn a Long Island dove mio nonno aveva una panetteria. Abitavamo sopra il negozio, di fronte c’era un playground famoso, sulla spiaggia, frequentat­o da giocatori di college e pro’ di New York. Mi alzavo presto, arrivavo per primo col mio pallone e se avevano bisogno di qualcuno per far numero mi lasciavano giocare. Altrimenti mi mandavano a prendere da bere... A dire il vero ero più bravo a baseball e football, ma qualsiasi sport andava bene. Quando era pronto da mangiare mamma accendeva e spegneva le luci. Era il segnale che era arrivato il momento di rientrare».

Come ha scelto North Carolina per il college?

«Il mio coach al liceo aveva giocato a baseball e basket a North Carolina, ma io volevo restare vicino a casa. Al Madison giocavano Long Island University, St. John’s. Mi offrirono la borsa di studio, ma il mio allenatore dell’high school ogni volta trovava qualcosa che non andava e le smontava... Alla fine Frank McGuire venne a reclutare mia madre, e la scelta di fatto fu sua, mi disse: “Vai a North Carolina”».

Quale allenatore le ha insegnato di più?

«Dean Smith è stato il mio mentore, ho giocato per lui e allenato con lui, è sempre stato parte della mia vita. Ma ne devo citare altri: McGuire, John McLendon, Alex Hannum, Hank Iba. Ho imparato qualcosa da ciascuno di loro».

Ha giocato nella Aba, roba da pionieri.

«Fu fenomenale. Venni scelto dai Baltimore Bullets in Nba, ma all’epoca uno di 1.80 non aveva chance. Finii col giocare con i Goodyear Wingfoots della Industrial League per due anni prima di passare ai New Orleans Buccaneers. Iniziai con Doug Moe, che di fatto mi fece da agente. Finii col guadagnare più di lui! Perdemmo gara-7 di finale contro la Pittsburgh di Connie Hawkins. Era una lega agli inizi, ci davano 10 dollari di diaria, ci dovevamo nastrare da soli. Ma la quantità di talento era enorme».

Da coach vinse il titolo Ncaa con Kansas nell’88.

«Eravamo più forti nell’86 ma perdemmo contro Duke. Danny Manning giocò solo 20’ per problemi di falli. Il titolo lo vinse Lousiville, che in stagione avevamo battuto due volte. Nell’88 partimmo male: infortuni, problemi accademici, 5 sconfitte di fila, ma sentivo che migliorava­mo di giorno in gior- no. E poi avevamo Manning. Infatti arrivò il titolo».

Il titolo Nba 2004 con i Pistons. Tutti davano strafavori­ti i Lakers.

«Dicevano che non avevamo stelle: Rasheed Wallace, Chauncey Billups, Rip Hamilton, Ben Wallace. A un certo punto della stagione tenemmo 7 avversari di fila sotto i 70 punti. Vincemmo gara-1, in gara-2 eravamo sopra di 3 a 7” dalla fine. Chiamo timeout, non è mia abitudine far fallo. Non ho mai fatto Hack-a-Shaq, infatti sono il suo allenatore preferito, mi abbraccia ogni volta che mi vede. Phil Jackson era prevedibil­e, ma i suoi eseguivano alla perfezione. Decisi di far fallo, ma i giocatori mi dissero “No coach, difendiamo”. La metà delle volte non mi davano comunque retta... Gli dico: “Ma se prende palla Shaq mandiamolo in lunetta”. Shaq la prende, ma non siamo abbastanza rapidi e lui la passa subito a Kobe che segna da tre. E poi perdiamo all’overtime. Siamo sull’autobus e vado verso il fondo a chiedere scusa ai giocatori. Joe Dumars, il gm, nemmeno mi guarda in faccia, sta mandando sms ai suoi amici di- cendo “Che idiota quel Brown!”. Ma i ragazzi mi dicono: “Vada a sedersi coach, tanto non torniamo a L.A.”. Vincemmo le 3 di fila in casa e il titolo 4-1».

Crede che si tiri troppo da tre oggi?

«Troppe triple e troppi cattivi tiri. Tutti vogliono essere i Warriors. I tiri che prendono Curry e Durant sono cattivi per tutti gli altri, ma non per loro. E’ sempre meglio andare al ferro. Difesa, rimbalzi e caricare di falli gli avversari, ecco le chiavi».

Il più grande giocatore che ha mai visto?

«Wilt Chamberlai­n è stato unico, Bill Russell il più vincente. Ma non scordiamoc­i di Oscar Robertson, Jerry West. Poi Jordan, Bird e Magic, loro hanno fatto la Nba. Ho allenato David Thompson, Julius Erving, Connie Hawkins. Ora c’è LeBron. C’è sempre qualcuno che ti lascia senza fiato».

Potesse scegliere uno per Torino: Curry o Durant?

«Kevin è unico, può mettere palla a terra, tirare, difende. Steph fa cose incredibil­i. Non LEGGENDA TRA LEGGENDE Larry Brown, 77 anni, in Gazzetta davanti alla copertina di SportWeek con Dan Peterson e Mike D’Antoni. Sotto, a sinistra, con Dante Calabria, 44 anni, suo assistente BOZZANI mi piace che tutte le stelle siano finite in una sola squadra, non è bene per la lega. Ma non rispondo alla domanda...».

La struttura attuale del college basket le piace?

«Sono contrario ai one and done. Se sei un fenomeno, come accade nel tennis, nel golf, è giusto che tu possa passare pro’ subito. Ma se non riesci a fare la squadra dovresti avere la chance di tornare al college. Chi resta solo un anno non studia, pensa solo a come crescere per sfondare al livello superiore. Chi resta 4 anni è pronto anche per la vita fuori dal campo, è più maturo. Ricordo Milicic: è arrivato e pensava di sapere già tutto. Non era colpa sua, ma del sistema».

Cosa conosce del nostro basket?

«Claudio Vandoni (storico tecnico delle minors, in panchina dagli Anni 70, due scudetti femminili col Geas, ndr.) nel 1979, mandato da coach Gamba, venne a Ucla e grazie a lui venni in Italia a fare dei camp. Ricordo che la lega era molto più forte una volta rispetto ad oggi, forse finirò nei guai per averlo detto. Dino Meneghin non sarebbe stato solo un buon giocatore nella Nba, ma una stella. E sono certo che ce ne fossero altri».

Come vorrebbe far giocare la sua squadra?

«Devo prima capire che giocatori avrò. Spero nei buoni tiri, detesto le forzature. Dobbiamo prendere sei buoni italiani, ma mi hanno detto che non è proprio facile».

Cosa si ricorda della partita di Colonia del 2004, quando l’Italia sconfisse il suo Dream Team?

«Be’, non era proprio il Dream Team quell’anno... Ci eravamo allenati pochissimo, l’Italia aveva un lungo che continuava a far canestro da fuori (Galanda, ndr.). Non avevamo la chimica giusta. Non era un periodo storico semplice, con l’11 settembre ancora fresco nella mente di molti, ad Atene stavamo sulla Queen Mary circondati da navi da guerra. Soragna (nuovo team manager a Torino, ndr.) me l’ha ricordato di recente. C’era pure quel piccolo play che ci tirò matti (Pozzecco, ndr.). Ai Giochi i ragazzi non volevano neppure giocare la finale per il 3° posto dalla delusione».

Ettore Messina può essere l’erede di Popovich?

«Sono andato al training camp degli Spurs, penso che potrebbe essere un ottimo allenatore Nba. Non so se erediterà la panchina di Pop, nella Nba ci sono mille dinamiche da prendere in consideraz­ione. Gli Spurs sono molto più simili a una squadra europea come gioco, quindi...».

Ha seguito l’Eurolega quest’anno?

«Sì, ho visto Kyle Hines, che ho tagliato a Charlotte, lo adoravo. E Cory Higgins, suo padre era il g.m., e si allenava con noi. Mi piace un sacco Teodosic, non vedevo l’ora di guardare le sue partite. Lento, non atletico, ma un grande giocatore. Poi Randolph del Real, Singleton del Panathinai­kos, gente che conosco bene. Non riesco a capire come non abbiano avuto successo nella Nba».

Cosa pensa di Luka Doncic?

«Non sono come gli altri, si è appesantit­o ogni anno. A 16 anni era bravo quanto ora. Ha grande intelligen­za cestistica, ma non saprei in quale ruolo potrebbe giocare, forse un’ala pivot. Se giocasse per D’Antoni o un coach con mentalità europea sarebbe fenomenale».

Siete pronti per sfidare l’Olimpia?

«Non mi preoccupo di Milano, solo di firmare qualche buon giocatore, preferibil­mente italiano e poi gli stranieri giusti che vogliano difendere e giocare per il diavolo. Sono molto esigente, spero di essere altrettant­o giusto. Ma è una grande opportunit­à di imparare e contribuir­e. Ho già ricevuto chiamate da molti americani che vogliono giocare per me».

DINO, IN NBA, NON SAREBBE STATO UN BUON GIOCATORE MA UNA STELLA

LARRY BROWN SU DINO MENEGHIN

DEAN SMITH IL MIO MAESTRO, CHAMBERLAI­N IL PIÙ GRANDE

IL COACH DELLA FIAT SUL BASKET USA

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 ??  ?? UN COACH DA RECORDHa allenato in Nba per 26 stagioni con 18 playoff portando 8 squadre diverse (record). Unico coach al mondo ad avere vinto Ncaa (Kansas 1988), Nba (Detroit 2004) e titolo olimpico (come vice a Sydney 2000)
UN COACH DA RECORDHa allenato in Nba per 26 stagioni con 18 playoff portando 8 squadre diverse (record). Unico coach al mondo ad avere vinto Ncaa (Kansas 1988), Nba (Detroit 2004) e titolo olimpico (come vice a Sydney 2000)
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