UN MONDIALE SENZA PADRONI
Russia 2018 senza padroni, ieri un grande Belgio
P er il funerale della Germania si prega di attendere. Quando molto sembrava perduto, Toni Kroos ha preso per la collottola il gattone tedesco e l’ha rimesso in sicurezza, anche se la qualificazione non è per niente conquistata.
Per il funerale della Germania si prega di attendere. Quando molto sembrava perduto, Toni Kroos ha preso per la collottola il gattone tedesco - perché questa pare diventata la Germania, un felino pasciuto - e l’ha rimesso in sicurezza, anche se la qualificazione non è per niente conquistata. Il gruppo F potrebbe chiudersi con un’ammucchiata a tre, da dipanare a colpi di differenza reti. Alta incertezza, ma nell’ultimo turno i tedeschi affronteranno i coreani del Sud. Tre punti sicuri e gol a pioggia, a meno di non immaginare una Germania tanto italianizzata da inciampare in una Corea qualsiasi.
Oltre i calcoli di classifica, si colgono i sintomi di un malessere e se non fosse che la Germania non è mai finita finché non è finita, verrebbe da scrivere che si intravede un’ombra di decadenza, sotto forma di pancia piena, di imperfezioni. Germania più umana, meno robotica, un filo mediterranea. La nazionale di Joachim Löw, a bordo campo in maglietta simil Sampaoli, ma più presentabile del collega argentino, ha penato per battere la Svezia, nostra aguzzina al playoff di novembre, però la proprietà transitiva non vale, la cosa non ci giustifica. Casomai conferma la tendenza di un Mondiale che non ha ancora trovato un padrone riconoscibile. Un Mondiale «comunista» nella Russia della rivoluzione d’ottobre. E forse non è casuale che a Mosca e dintorni viaggi veloce il Messico, la cui storia è densa di rivoluzioni e rivoluzionari, da Pancho Villa al Subcomandante Marcos: due vittorie su due, ieri contro i coreani, e la testa del girone in cui i tedeschi dovevano passeggiare. Il Belgio, l’altra notizia di giornata. Tre gol a Panama nella prima partita, cinque ieri alla Tunisia. Due avversari facili, col senno di poi, ma in un Mondiale non esistono avversari morbidi a priori. La presenza di Mertens condiziona chi guarda i belgi con occhi italiani, qua e là sembra di scorgere qualcosa di sarriano nello sviluppo del gioco, però è un’illusione ottica. La squadra si adatta benissimo alle situazioni di gioco dalla metà campo in su: riempie i vuoti con rapidità e talento, moltiplica spazio e tempo, persegue la profondità. Nel cruciverba-calcio abbiamo attraversato da poco l’era dell’orizzontalità e del palleggio esasperato, ma oggi sono ritornate di moda le parole verticali. Il Liverpool di Klopp in Champions. Il Belgio al Mondiale: dritti per dritti, senza trastulli e senza Radja Nainggolan, lasciato a casa perché di debordante personalità, troppo leader per una nazionale in cui il vero leader è la comunità. Il Belgio è una matassa etnica, sul corpaccione della divisione interna, quella classica tra fiamminghi e valloni, si sono innestati gli afrobelgi come Lukaku o iberici, come Carrasco. Sembra che un allenatore straniero, lo spagnolo Martinez, ce l’abbia fatta a tenere tutto assieme, quantomeno nel tempo breve della Coppa. Agli antipodi sta la Croazia, fiera e monolitica nel suo nazionalismo. Belgio e Croazia, eccezioni vaganti. Era prevedibile che una delle due facesse bene, meno pronosticabile che tutte e due fossero a punteggio pieno dopo due giornate. Il rischio è il solito, l’appagamento inconscio, tipico di nazionali con poca attitudine ai labirinti delle partite che conteranno sul serio. Il Belgio ha undici milioni di abitanti, la Croazia quattro. L’albo d’oro del Mondiale ricorda che soltanto due volte, e in epoche lontane, la Coppa l’ha alzata un piccolo Paese, ma di grande scuola, l’Uruguay, in Russia già qualificato agli ottavi. Proletari di tutto il Mondiale, unitevi.