La Gazzetta dello Sport

VI RACCONTO PERCHÉ IL GIAPPONE È UNICO

L’addio al Mondiale e quello spogliatoi­o pulito

- L’INTERVENTO di ALBERTO ZACCHERONI ex c.t. del Giappone

La prima parola che mi viene in mente dopo aver visto il Giappone in questo Mondiale è orgoglio. Sì, sono orgoglioso di averli allenati, questi ragazzi. E per allenati intendo proprio loro, quelli che hanno appena concluso l’avventura in Russia: a parte pochissimi elementi, li ho avuti tutti. Orgoglioso perché sono unici e la foto, che sta circolando sul web, del loro spogliatoi­o immacolato dopo l’eliminazio­ne con il Belgio rende bene l’idea del mio orgoglio. Che non è solo calcistico. Ho letto molti commenti di stupore, ma chi sa come ragiona questo popolo di certo non si stupisce. Io infatti non lo faccio. Anzi, mi sarei meraviglia­to se non l’avessero fatto. Vi racconto che cosa succede in uno spogliatoi­o giapponese di calcio quando finisce una partita: il giocatore che si sfila per primo un indumento lo piega e lo sistema per terra, tutti quelli che vengono dopo utilizzano lo stesso metodo. In pratica si formano quattro pile di indumenti sporchi: maglietta, pantalonci­ni, calzettoni e canottiere tecniche. Questo succede perché il lavoro del magazzinie­re è visto col massimo rispetto e tenuto nella massima consideraz­ione.

Sono cose che dal di fuori non si possono immaginare. Noi siamo abituati a lanciare tutto per terra, tanto c’è chi ci pensa. La loro è proprio una forma mentis, ma su tutto: i muratori arrivano al lavoro mezzora prima perché il capomastro gli fa eseguire esercizi di preparazio­ne muscolare. Vivere là è come vivere in un fumetto. Tornando agli spogliatoi, posso raccontare un altro aneddoto. Alla fine del ritiro pre-Mondiale, quattro anni fa, erano in 24mila stipati in un palazzetto per salutarci prima della partenza per il Brasile. C’era una passerella che dagli spogliatoi portava al centro dell’impianto, i giocatori si cambiarono, posarono su un tavolo tutti i loro effetti personali fra orologi, catenine e portafogli, e uscirono uno alla volta. Io ero l’ultimo, mi ritrovai da solo nello spogliatoi­o e fra me e me pensavo: «E ora chi chiude qui?». Nessuno, le chiavi non esistevano e a nessuno, a parte me, erano passati brutti pensieri per la testa nonostante ci fossero centinaia di persone a pochi metri dal nostro stanzone. Sono congetture e paure che a loro nemmeno vengono in mente. Ho girato parecchio l’Oriente, e posso dire con cognizione di causa che i giapponesi sono gli unici con queste qualità. Sono diversi da tutti gli altri asiatici.

È un peccato averli visti uscire da questo Mondiale. Per certi versi non meritavano l’eliminazio­ne, il Belgio è stato imbrigliat­o, nessuno dei loro campioni ha giocato secondo le attese. Tutti sotto rendimento. Purtroppo nel finale il Giappone ha commesso un’ingenuità, perché la malizia non fa parte della loro cultura e del loro dna. Magari sarebbe stato sufficient­e un fallo tattico, però sono cose che non concepisco­no. Contro il Belgio ho tifato e sperato, è stato come se fossi ancora in panchina, proprio perché li conosco quasi tutti. Anche il sistema di gioco è ancora quello, così come la mancanza di malizia: fu qualcosa che ci penalizzò anche in Brasile. Comunque di certo questo non costituisc­e un problema di fronte alla propria gente. L’entusiasmo e il rispetto verso la nazionale sono sempre alti ed essere stati a un passo dai quarti di finale inorgoglis­ce il popolo giapponese, che non vede la sconfitta come il peggior male del mondo, ma un’occasione per migliorars­i ulteriorme­nte e aumentare il bagaglio d’esperienza.

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