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IL PRESIDENTE DELL’UCI «MI APPELLO AI TIFOSI RISPETTATE FROOME»

La nazionale celeste nel G8 del Mondiale

- BERGONZI, GIALANELLA, SCOGNAMIGL­IO >

Sabato via alla corsa francese col britannico al centro dell’attenzione: «Doppietta col Giro come Pantani? Sarebbe fantastico»

Ogni volta che s’incrocia l’Uruguay la memoria corre al Maracanazo del 1950, agli splendori e alle miserie di Eduardo Galeano. Rifugi nobili, secolari, nei quali la storia si ristora con orgoglio e la cronaca con invidia. I paragoni sono pavimenti pericolosa­mente freschi di cera: se scivoli, rischi lo scherno; se li domi, ti si apre lo schermo.

Stiamo parlando di un Paese che arriva a malapena a tre milioni e mezzo di abitanti, di un peso piuma che il destino e la geografia hanno collocato tra due pesi massimi, l’Argentina e il Brasile. Una formica corazzata che incarna l’artiglio (in spagnolo, «garra») dei Charrua, la tribù che popolò la zona del Rio de la Plata e diventò simbolo di indipenden­za, coraggio, ribellione. Non sempre il calcio coincide con l’indotto che lo esprime. Il Brasile del 1970, il Brasile di Jairzinho, Gerson, Tostao, Pelé e Rivelino, uno dei più belli in assoluto, sbocciò sotto il ««golpe» del generale Emilio Garrastazu Medici. Il c.t. era Joao Saldanha, un giornalist­a troppo comunista per i gusti di palazzo. Lo fecero fuori e, al suo posto, promossero Mario Zagallo. Non proprio uno «schema» fantasia. Nell’Uruguay, come ha raccontato Niccolò Mello nel libro «Quando il calcio era celeste», il colore della pelle non costituì mai un problema come viceversa, a San Paolo, lo fu per Arthur Friedenrei­ch, il protocanno­niere figlio di un commercian­te tedesco e una lavandaia di sangue africano. Se lo stile degli argentini si rifà al tango, che si balla «a uomo», e la scuola dei brasiliani al samba, allegramen­te danzabile «a zona», l’Uruguay ha dovuto farsi largo con l’accetta della resistenza, degli attacchi a sorpresa, dei morsi - non solo figurati - di Luis Suarez.

La stampella di Oscar Washington Tabarez ne celebra lo spirito di lotta continua; la vittoria sul Portogallo, costruita attorno ai gol di Edinson Cavani e al lavoro sporco, brutto e cattivo del Pistolero, ha rilanciato un antico mantra: se le stelle non stanno a guardare, molto può succedere su questa avventurat­a erba.

Non gioca «bello», l’Uruguay che domani sfiderà la Francia nei quarti: gioca «bene», nel senso di ordine, fame, mutuo soccorso. E se Juan Alberto Schiaffino anticipò i tempi, Enzo Francescol­i ispirò Zizou Zidane e Alvaro Recoba accese la «libido» dell’attimo, il Dna di questa nazione e di questa nazionale rimane legato, nei secoli, ai gesti austeri di Obdulio Varela, il capitano della squadra che trasformò Rio in un cimitero; ai rostri di Paolo Montero, il cui codice di onore finì per garantirgl­i addirittur­a il rispetto delle «vittime»; a Diego Godin, il sicario che ci eliminò nel 2014, la trave che regge tutte le pagliuzze. L’Uruguay fu quarto nel 2010 e chiuse agli ottavi quattro anni dopo. In Fernando Muslera ha un portierelo­tteria lontano dal repertorio asciutto di Ladislao Mazurkiewi­cz, testimone e complice della finta più asimmetric­a e incredibil­e (sì, incredibil­e) che un uomo potesse immaginare e disegnare su un campo, Pelé in Messico.

«Se sai soffrire, saprai far soffrire» è il motto che l’Uruguay ha innalzato a tatuaggio. Martin Caceres terzino destro sembrava un cerotto, Diego Laxalt terzino sinistro un azzardo. Lo zoccolo duro ne sta mascherand­o i limiti. Con Rodrigo Bentancur, Lucas Torreira e Matias Vecino sono le tracce e le facce del nostro campionato. L’Uruguay non è anticalcio. L’Uruguay è il calcio del Cholo Simeone e di Nereo Rocco, il Paron che fornì lo slogan a mastro Tabarez: «Vinca il migliore? Speremo de no».

E comunque, nel suo piccolo: due Mondiali, due Olimpiadi, quindici Coppe America.

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