La Gazzetta dello Sport

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Gli inventori del football in semifinale mondiale

- IL COMMENTO di ANDREA SCHIANCHI

Seb con il mal di collo parte 2°, Raikkonen 3° Lewis: «Spinto dai tifosi»

Ealla fine di un lungo giro durato ventotto anni, il pallone ritornò tra le braccia della Madre. L’Inghilterr­a, cioè la terra dove il football è nato nel lontano Ottocento, sbarca nelle semifinali del Mondiale: l’ultima apparizion­e risale a Italia ‘90, quando poi venne eliminata dai tedesconi Matthäus, Brehme e Klinsmann. Prima di allora c’era riuscita soltanto un’altra volta, nel 1966: in quel caso portò a casa pure il trofeo, la Coppa Rimet, l’unico della bacheca. Certo che fa riflettere, e non poco, la circostanz­a che i Maestri del Calcio, perché tali si sono sempre ritenuti e continuano a ritenersi, in ventuno edizioni dei campionati del mondo, siano arrivati la miseria di tre volte tra le Fab Four. La Premier League è un modello di gioco, di economia e di globalizza­zione, ma la nazionale finora non è mai andata al traino del campionato. Dal 1977 al 1984 i club di Sua Maestà vinsero sette volte su otto la Coppa dei Campioni (e non c’erano tanti stranieri come oggi a rimpolpare le formazioni), eppure in quel periodo l’Inghilterr­a fu una specie di disastro. Oggi, chissà, forse si colma quella distanza: mamma nazionale, finalmente, si nutre di ciò che la Premier propone.

A scorrere i nomi dei giocatori di Gareth Southgate, diciamolo chiarament­e, non ci s’imbatte in fuoriclass­e o campioniss­imi che possano segnare un’epoca: Harry Kane è bravo, d’accordo, ma non è Cristiano Ronaldo, e nemmeno Mbappè, Griezmann, Suarez o Cavani; Sterling corre veloce e ha piedi dolci, verissimo, però Messi è un’altra cosa. In ogni caso, pur senza possedere qualità extraterre­stri, questa Inghilterr­a, con la fatica, con il sudore, talvolta con l’inevitabil­e pizzico di fortuna che sempre accompagna le grandi avventure (a esempio i calci di rigore contro la Colombia), è a un passo dalla gloria. Come sia arrivata fino a questo punto è presto detto: si è spogliata della tradizione, con atto di umiltà ha cancellato dal volto (e dalla mente) quel senso di superiorit­à che era una zavorra più che un punto di forza, ha messo da parte le credenze tattiche del passato, la religiosa devozione al 4-4-2, palla lunga sugli esterni e cross in mezzo all’area, e ha cominciato a seguire, passo dopo passo, ciò che stava avvenendo nel pianeta del Football senza rinchiuder­si nella solita torre d’avorio. Così ecco che l’Inghilterr­a tocchetta a centrocamp­o, ricerca la costruzion­e della trama e non punta più soltanto sulle azioni muscolari, concede libertà agli uomini che hanno fantasia, si difende «a tre» e non si vergogna se ai «centraloni» deve aggiungere i due esterni. Southgate ha portato logica e saggezza là dove c’era troppa supponenza, e adesso i risultati si vedono.

Non è la nazionale spettacola­re di Bobby Moore e Bobby Charlton, di Geoff Hurst e del ragno Gordon Banks, questo è davanti agli occhi di tutti, però in un Mondiale «nudo», improvvisa­mente orfano dei campioniss­imi e delle squadre più titolate e più accreditat­e, i ragazzi di Southgate possono alzare la voce. Hanno vivacità, brillantez­za, coraggio, spirito di sacrificio, voglia di lottare. E adesso che il traguardo è vicino, anche la stanchezza, che dopo un torneo lungo e sfibrante come il Mondiale è un avversario temibile, diventa più sopportabi­le. Si tratta di fare l’ultimo tratto di strada «a tutta», come si dice nel ciclismo, senza voltarsi a guardare in faccia il rivale e contando soltanto sulle proprie forze. Una nazione intera, la nazione dov’è stato inventato il calcio, freme nell’attesa. I pub si riempiono, la birra scorre a fiumi, le strade si svuotano e a Buckingham Palace c’è sempre la Regina Elisabetta che aspetta. Adesso come nel 1966. Il cerchio si chiude.

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