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Gli inventori del football in semifinale mondiale
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Ealla fine di un lungo giro durato ventotto anni, il pallone ritornò tra le braccia della Madre. L’Inghilterra, cioè la terra dove il football è nato nel lontano Ottocento, sbarca nelle semifinali del Mondiale: l’ultima apparizione risale a Italia ‘90, quando poi venne eliminata dai tedesconi Matthäus, Brehme e Klinsmann. Prima di allora c’era riuscita soltanto un’altra volta, nel 1966: in quel caso portò a casa pure il trofeo, la Coppa Rimet, l’unico della bacheca. Certo che fa riflettere, e non poco, la circostanza che i Maestri del Calcio, perché tali si sono sempre ritenuti e continuano a ritenersi, in ventuno edizioni dei campionati del mondo, siano arrivati la miseria di tre volte tra le Fab Four. La Premier League è un modello di gioco, di economia e di globalizzazione, ma la nazionale finora non è mai andata al traino del campionato. Dal 1977 al 1984 i club di Sua Maestà vinsero sette volte su otto la Coppa dei Campioni (e non c’erano tanti stranieri come oggi a rimpolpare le formazioni), eppure in quel periodo l’Inghilterra fu una specie di disastro. Oggi, chissà, forse si colma quella distanza: mamma nazionale, finalmente, si nutre di ciò che la Premier propone.
A scorrere i nomi dei giocatori di Gareth Southgate, diciamolo chiaramente, non ci s’imbatte in fuoriclasse o campionissimi che possano segnare un’epoca: Harry Kane è bravo, d’accordo, ma non è Cristiano Ronaldo, e nemmeno Mbappè, Griezmann, Suarez o Cavani; Sterling corre veloce e ha piedi dolci, verissimo, però Messi è un’altra cosa. In ogni caso, pur senza possedere qualità extraterrestri, questa Inghilterra, con la fatica, con il sudore, talvolta con l’inevitabile pizzico di fortuna che sempre accompagna le grandi avventure (a esempio i calci di rigore contro la Colombia), è a un passo dalla gloria. Come sia arrivata fino a questo punto è presto detto: si è spogliata della tradizione, con atto di umiltà ha cancellato dal volto (e dalla mente) quel senso di superiorità che era una zavorra più che un punto di forza, ha messo da parte le credenze tattiche del passato, la religiosa devozione al 4-4-2, palla lunga sugli esterni e cross in mezzo all’area, e ha cominciato a seguire, passo dopo passo, ciò che stava avvenendo nel pianeta del Football senza rinchiudersi nella solita torre d’avorio. Così ecco che l’Inghilterra tocchetta a centrocampo, ricerca la costruzione della trama e non punta più soltanto sulle azioni muscolari, concede libertà agli uomini che hanno fantasia, si difende «a tre» e non si vergogna se ai «centraloni» deve aggiungere i due esterni. Southgate ha portato logica e saggezza là dove c’era troppa supponenza, e adesso i risultati si vedono.
Non è la nazionale spettacolare di Bobby Moore e Bobby Charlton, di Geoff Hurst e del ragno Gordon Banks, questo è davanti agli occhi di tutti, però in un Mondiale «nudo», improvvisamente orfano dei campionissimi e delle squadre più titolate e più accreditate, i ragazzi di Southgate possono alzare la voce. Hanno vivacità, brillantezza, coraggio, spirito di sacrificio, voglia di lottare. E adesso che il traguardo è vicino, anche la stanchezza, che dopo un torneo lungo e sfibrante come il Mondiale è un avversario temibile, diventa più sopportabile. Si tratta di fare l’ultimo tratto di strada «a tutta», come si dice nel ciclismo, senza voltarsi a guardare in faccia il rivale e contando soltanto sulle proprie forze. Una nazione intera, la nazione dov’è stato inventato il calcio, freme nell’attesa. I pub si riempiono, la birra scorre a fiumi, le strade si svuotano e a Buckingham Palace c’è sempre la Regina Elisabetta che aspetta. Adesso come nel 1966. Il cerchio si chiude.