QUANDO LO SPORT FA MOLTO MALE
Lettere alla Gazzetta
Lo sport amatoriale fa bene se praticato nel modo giusto e senza esagerare, ad esempio il ciclismo, ma oltre gli effetti positivi psicofisico e sociali ne ho sotto gli occhi un lato negativo e omertoso che raramente si affronta: parlo di una vera e propria dipendenza. Questi praticanti «esagerati» (non parlo dei cicloamatori, categoria ormai vicina ai professionisti, ma del livello ancora sottostante) possiedono di solito più di una bicicletta: la city bike in città e la bici da corsa tutto l’anno, la mountain bike solo d’inverno. Persino durante le ferie la bici non può mancare. La dipendenza non riguarda solo i pensionati che hanno tanto tempo a disposizione, ma anche le nuove generazioni: il contagio è inevitabile. Il mio amico Ilario, 88 anni, conosciuto sulla ciclabile, esce ogni giorno, evita solo l’inverno e le giornate piovose, racconta di essere stato gravemente investito quattro volte, che non sono bastate a calmarne gli ardori.
Per chi abita vicino a Bolzano come me, ci sono vari gruppi di appassionati che viaggiano a velocità diverse con assiduità sempre crescente. Il gruppo più tosto di solito è un misto di giovani, baby pensionati e alcuni over 60, che partono già al ritmo di 33 chilometri orari (non consigliabile ai principianti): insieme a loro bisogna avere la massima concentrazione e ogni azzardo può essere un pericolo per sé e per gli altri, ci vuole un attimo per cadere dalla bici. Non è una cosa piacevole, ma prima o poi succede, se ci va bene usciamo solo con qualche contusione o ematoma, ma in tanti anni ho visto ogni sorta di frattura. Ed è proprio in quel momento che ci rendiamo conto che siamo come drogati e che dovremmo darci una calmata. Ma appena finito il periodo di convalescenza, rieccoci di nuovo in sella. Nessuno pensa di consultare uno psicologo dello sport, ci sembra ridicolo. Non lo ammettiamo neanche a noi stessi, ma siamo peggio di chi gioca alle macchinette: accanto ai rischi fisici, noi cicloamatori accaniti investiamo un bel po’ di soldi; guai a non cambiare bici per quella in fibra di carbonio. È molto difficile vincere la tentazione di «fare di più», limitandosi a pochi chilometri o evitando le salite: siamo animali social. Vedo gente fare dai 15 mila chilometri all’anno in su con il rischio di anticipare le malattie degenerative di ossa e cartilagini. Non ci rendiamo conto che è meglio arrivare alla vecchiaia senza dovere mettere delle protesi. Siamo gli autolesionisti dello sport.
Tarek Hassen (Bolzano)
Lei scrive di un tabù dello sport: ciò di cui quasi nessuno ama parlare. Il titolo è: quando lo sport fa male, al fisico e alla mente. Naturalmente questa tribù di fanatici, purtroppo in forte crescita, non si limita al ciclismo: i podisti o i nuotatori «fuori di testa» proliferano. Così come ultrapraticanti di altre discipline. Lei ha impostato bene il problema: la mania sfocia infatti in una vera e propria dipendenza, nociva quanto quelle per alcol, droga, azzardo, sesso, videogiochi. E capace di raggiungere gli effetti opposti della salute e della socializzazione. Questa è una delle più subdole, perché il disturbo del comportamento si maschera all’interno di un’attività, quella sportiva, che gode di una fama sociale inattaccabile: è o non è da millenni l’esercizio più nobile e benefico? Anche in questo caso solo la verità può guarire dalle tossine del «troppo sport». Almeno davanti allo specchio è necessario uscire dall’ipocrisia del «voglio battere solo me stesso e i miei limiti». E la parola psicologo non è certo spesa male in questo contesto: alla radice di queste deviazioni ci sono problemi che vanno affrontati e risolti.