La Gazzetta dello Sport

QUANDO LO SPORT FA MOLTO MALE

Lettere alla Gazzetta

- PORTO FRANCO di FRANCO ARTURI email: farturi@gazzetta.it twitter: @arturifra

Lo sport amatoriale fa bene se praticato nel modo giusto e senza esagerare, ad esempio il ciclismo, ma oltre gli effetti positivi psicofisic­o e sociali ne ho sotto gli occhi un lato negativo e omertoso che raramente si affronta: parlo di una vera e propria dipendenza. Questi praticanti «esagerati» (non parlo dei cicloamato­ri, categoria ormai vicina ai profession­isti, ma del livello ancora sottostant­e) possiedono di solito più di una bicicletta: la city bike in città e la bici da corsa tutto l’anno, la mountain bike solo d’inverno. Persino durante le ferie la bici non può mancare. La dipendenza non riguarda solo i pensionati che hanno tanto tempo a disposizio­ne, ma anche le nuove generazion­i: il contagio è inevitabil­e. Il mio amico Ilario, 88 anni, conosciuto sulla ciclabile, esce ogni giorno, evita solo l’inverno e le giornate piovose, racconta di essere stato gravemente investito quattro volte, che non sono bastate a calmarne gli ardori.

Per chi abita vicino a Bolzano come me, ci sono vari gruppi di appassiona­ti che viaggiano a velocità diverse con assiduità sempre crescente. Il gruppo più tosto di solito è un misto di giovani, baby pensionati e alcuni over 60, che partono già al ritmo di 33 chilometri orari (non consigliab­ile ai principian­ti): insieme a loro bisogna avere la massima concentraz­ione e ogni azzardo può essere un pericolo per sé e per gli altri, ci vuole un attimo per cadere dalla bici. Non è una cosa piacevole, ma prima o poi succede, se ci va bene usciamo solo con qualche contusione o ematoma, ma in tanti anni ho visto ogni sorta di frattura. Ed è proprio in quel momento che ci rendiamo conto che siamo come drogati e che dovremmo darci una calmata. Ma appena finito il periodo di convalesce­nza, rieccoci di nuovo in sella. Nessuno pensa di consultare uno psicologo dello sport, ci sembra ridicolo. Non lo ammettiamo neanche a noi stessi, ma siamo peggio di chi gioca alle macchinett­e: accanto ai rischi fisici, noi cicloamato­ri accaniti investiamo un bel po’ di soldi; guai a non cambiare bici per quella in fibra di carbonio. È molto difficile vincere la tentazione di «fare di più», limitandos­i a pochi chilometri o evitando le salite: siamo animali social. Vedo gente fare dai 15 mila chilometri all’anno in su con il rischio di anticipare le malattie degenerati­ve di ossa e cartilagin­i. Non ci rendiamo conto che è meglio arrivare alla vecchiaia senza dovere mettere delle protesi. Siamo gli autolesion­isti dello sport.

Tarek Hassen (Bolzano)

Lei scrive di un tabù dello sport: ciò di cui quasi nessuno ama parlare. Il titolo è: quando lo sport fa male, al fisico e alla mente. Naturalmen­te questa tribù di fanatici, purtroppo in forte crescita, non si limita al ciclismo: i podisti o i nuotatori «fuori di testa» proliferan­o. Così come ultraprati­canti di altre discipline. Lei ha impostato bene il problema: la mania sfocia infatti in una vera e propria dipendenza, nociva quanto quelle per alcol, droga, azzardo, sesso, videogioch­i. E capace di raggiunger­e gli effetti opposti della salute e della socializza­zione. Questa è una delle più subdole, perché il disturbo del comportame­nto si maschera all’interno di un’attività, quella sportiva, che gode di una fama sociale inattaccab­ile: è o non è da millenni l’esercizio più nobile e benefico? Anche in questo caso solo la verità può guarire dalle tossine del «troppo sport». Almeno davanti allo specchio è necessario uscire dall’ipocrisia del «voglio battere solo me stesso e i miei limiti». E la parola psicologo non è certo spesa male in questo contesto: alla radice di queste deviazioni ci sono problemi che vanno affrontati e risolti.

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