LA FINALE E L’IDENTITÀ DEL NOSTRO TEMPO
Mondiale, oggi l’ultimo atto con Francia-Croazia
Nella partita più importante dell’anno, Francia e Croazia giocano anche per superare traumi, affermare un’identità, darsi uno slancio molto più forte del calcio a un pallone. I francesi potevamo aspettarceli, in fondo, nel capolinea di Mosca. Luka Modric e compagni, anche no. Sono loro la parte mai vista della finale mondiale. I pronostici dicono Bleus, tengono avanti il talento dei Mbappé, Griezmann, Pogba – la freschezza giovanile – rispetto alla classe matura di Modric e Rakitic, alla potenza di Perisic e Mandzukic gente che viaggia attorno ai trent’anni e ha qualche supplementare nei muscoli. Normale. Un mese fa la nazionale di Didì Deschamps si era presentata in Russia tra le candidate al successo finale. Sono stati i tedeschi, gli spagnoli e i brasiliani a tradire le aspettative. La Croazia stava un passo di lato alle outsider, protetta dall’ombra di Messi e Ronaldo, dietro al Belgio di De Bruyne e Hazard (ieri meritatamente terzo) e all’Inghilterra. Solo dopo il 3-0 sull’Argentina, la nazionale di Zagabria è diventata una mina vagante nel tabellone, con la prospettiva di andare molto avanti. Il carattere ammazza-big di questa Coppa – uno spot per lo zar Putin sul piano dell’organizzazione – ha dato una mano.
Vent’anni dopo l’exploit di Boban e Suker, la generazione Modric supera l’impresa del terzo posto conquistato in Francia dai maestri e si gioca il Mondiale in un match secco. L’Uruguay nel 1950 contava poco più di 2 milioni di abitanti, non si era mai visto da allora un Paese così piccolo (4,1 milioni) arrivare tanto in alto. Dev’essere anche per questo che, adesso, i croati raccolgono forti simpatie. Davide contro Golia. La vecchia periferia che sfida una delle ricche capitali del pianeta. E poi la puzza sotto al naso della Grandeur. Anche la politica ci sguazza, nell’Europa che si gioca il mondo. Sappiamo che aria tira, non solo in Italia. Figlia delle guerre etniche che hanno attraversato i Balcani, questa Croazia ricorda l’Athletic Bilbao, non per come gioca ma per la voglia di coniugare il calcio con le radici, diciamo così in purezza. Va bene il senso di appartenenza, ma la foto del consiglio dei ministri di Zagabria, tutti con la maglia della nazionale è un pelo imbarazzante. Resta aperta qualche porta: il blaugrana Rakitic scambia auguri e complimenti col serbo Djokovic, sull’asse Wimbledon-Mosca nella speranza di lasciarsi la storia alle spalle. Possibile? Tra qualche insulto, si allarga la voglia di pace.
Sull’altro fronte, la Francia: unica nazionale che gioca tre finali in vent’anni. Con Deschamps ha superato la balcanizzazione delle identità, esplosa in Sudafrica nel 2010. Le decine di migliaia di tifosi che accompagnano nelle strade l’avventura dei Bleus, possono di nuovo riconoscersi nei giocatori, come succedeva con Zidane, Blanc, Henry. Si è riacceso il motore. La sintesi è Kylian Mbappé. Madre algerina, padre del Camerun, infanzia nelle banlieue, velocità e tecnica marziana. I centri di formazione hanno ricominciato a funzionare. Questa nazionale è la punta di un iceberg: oggi gioca un calcio difensivo, concreto, chiuso come un crampo. Ma può aprirsi al talento, dare spettacolo. Mbappé a 19 anni è il valore aggiunto, se perde avrà tempo per rifarsi. Griezmann, altro candidato al Pallone d’oro, ci pensa. Modric, asso del Real che mette in rima calcio e poesia, deve cogliere l’attimo. «Con centomila soldati croati, conquisterei il mondo» ha detto un giorno Napoleone, senza particolari allusioni alla Russia. Vero o no, rende l’idea. La storia tende a ripetersi in modo circolare. Pazienza se non rimbalzerà, rotonda, come un pallone.