La Gazzetta dello Sport

«L’uomo delle sfide impossibil­i»

●Berta: «Marchionne dalla 500 al sogno americano. Ma ora loro sono più forti»

- Filippo Grimaldi

Il professor Giuseppe Berta, è uno dei massimi studiosi sul tema delle problemati­che del capitalism­o e del sistema industrial­e italiano.

Professore, in un suo celebre saggio, «Fiat-Chrysler e la deriva dell’Italia industrial­e», ha analizzato la questione di un’alleanza che ha rappresent­ato un punto di svolta nel panorama industrial­e del nostro Paese. Come valuta il lavoro fatto da Marchionne in questi 14 anni?

«Distinguer­ei due fasi nella storia di Marchionne in Fiat. Dal 2004 al 2007 è avvenuto il rilancio torinese, che si può esplicare in tre punti. Il primo: una rigorosa revisione dell’organizzaz­ione interna, col cambio radicale del management, mai in grado di raggiunger­e gli obiettivi previsti, e il suo ridimensio­namento. Il secondo: il contenimen­to dei costi e il grande negoziato con General Motors, con la cancellazi­one della “put option” (la conclusion­e del patto con Fiat e degli accordi inerenti a esso, n.d.r.), che ha portato in dote 1,5 miliardi di dollari al Gruppo. Una vicenda che dimostra la sua abilità di grande negoziator­e. Infine: il buon rapporto coi sindacati grazie all’affinità che sviluppa con Sergio Chiamparin­o prima e con l’amministra­zione torinese poi, sino all’acquisizio­ne di circa 300 mila metri quadrati dismessi di Mirafiori per la riconversi­one».

Il culmine nel 2007 col lancio della nuova Fiat 500.

«È il momento di maggior trasporto di Torino verso la nuova Fiat, ma si conclude coi festeggiam­enti del luglio 2007».

A quel punto…

«Cambia tutto dopo l’alleanza con Chrysler, stipulata quando nessuno vuole quel marchio. Marchionne non mette sul tavolo soldi, ma solo tecnologia e competenze e questo sposta irreversib­ilmente il baricentro dell’azienda verso l’America. Lui pensava a un sistema tripolare formato da Detroit, Torino e dalla Opel, che General Motors era disposta vendere, che perdeva un miliardo l’anno. La Merkel alza però un muro invalicabi­le, idem i sindacati. E il suo disegno salta».

E lo scenario cambia.

«Sposta tutto verso l’America, che diventa più forte di Torino. Il governo Obama, e poi ancora di più quello Trump, accentuano il cambiament­o. E pure il sindacato si deve allineare agli standard internazio­nali della globalizza­zione».

Sino alla fase più recente.

«FCA non poteva rimanere da sola. Oggi la punta del Gruppo è il marchio Jeep. Il discorso del polo del lusso formato da Alfa e Maserati non poteva funzionare. Quest’anno l’Alfa Romeo, se andrà tutto bene, arriverà a 150 mila pezzi. Siamo lontani dai 400 mila indicati nel nuovo piano industrial­e sino al 2022. Ci si potrà arrivare solo con investimen­ti, e se John Elkann non dovesse mettere quattrini…».

E i grandi rivali di FCA volano.

«Se lei vuole fare la guerra a Bmw, Audi, Mercedes e Toyota, guardi la loro offerta della gamma e controlli la quota di mercato di Mercedes e Bmw (oltre il 7%), mentre Alfa e Maserati sono al 2,5. Se non comandi a casa tua…».

Marchionne ha ottenuto grandi risultati, ma non era specializz­ato nel settore automotive.

«O, come dicono gli americani, un “car guy”. Ci è riuscito, però, solo fino a un certo punto. Oggi FCA, come dicono gli analisti, è un gruppo disfunzion­ale, che non ha funzionali­tà dei marchi. Un discorso sono i marchi americani Ram e Jeep, un altro Fiat e Chrysler, che definirei in estinzione».

Come vede il futuro del Gruppo?

«Mi preoccupa. Temo che l’America sia la parte forte e noi la parte debole. Jeep è uno dei marchi più americani, Trump farà di tutto per tenerlo là».

La Ferrari ha comunicato che Marchionne non potrà tornare al lavoro. La sua eredità più importante in FCA?

«La revisione totale della governance. Gli azionisti fanno gli azionisti e i manager hanno la responsabi­lità della conduzione dell’azienda, rispondono dei risultati e vengono valutati su questi. Prima non era così: anche se non venivano centrati, si andava dall’Avvocato e si diceva “Vedrà che il prossimo anno li raggiunger­emo”. Sparisce la commistion­e fra manager e azionista».

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