«L’uomo delle sfide impossibili»
●Berta: «Marchionne dalla 500 al sogno americano. Ma ora loro sono più forti»
Il professor Giuseppe Berta, è uno dei massimi studiosi sul tema delle problematiche del capitalismo e del sistema industriale italiano.
Professore, in un suo celebre saggio, «Fiat-Chrysler e la deriva dell’Italia industriale», ha analizzato la questione di un’alleanza che ha rappresentato un punto di svolta nel panorama industriale del nostro Paese. Come valuta il lavoro fatto da Marchionne in questi 14 anni?
«Distinguerei due fasi nella storia di Marchionne in Fiat. Dal 2004 al 2007 è avvenuto il rilancio torinese, che si può esplicare in tre punti. Il primo: una rigorosa revisione dell’organizzazione interna, col cambio radicale del management, mai in grado di raggiungere gli obiettivi previsti, e il suo ridimensionamento. Il secondo: il contenimento dei costi e il grande negoziato con General Motors, con la cancellazione della “put option” (la conclusione del patto con Fiat e degli accordi inerenti a esso, n.d.r.), che ha portato in dote 1,5 miliardi di dollari al Gruppo. Una vicenda che dimostra la sua abilità di grande negoziatore. Infine: il buon rapporto coi sindacati grazie all’affinità che sviluppa con Sergio Chiamparino prima e con l’amministrazione torinese poi, sino all’acquisizione di circa 300 mila metri quadrati dismessi di Mirafiori per la riconversione».
Il culmine nel 2007 col lancio della nuova Fiat 500.
«È il momento di maggior trasporto di Torino verso la nuova Fiat, ma si conclude coi festeggiamenti del luglio 2007».
A quel punto…
«Cambia tutto dopo l’alleanza con Chrysler, stipulata quando nessuno vuole quel marchio. Marchionne non mette sul tavolo soldi, ma solo tecnologia e competenze e questo sposta irreversibilmente il baricentro dell’azienda verso l’America. Lui pensava a un sistema tripolare formato da Detroit, Torino e dalla Opel, che General Motors era disposta vendere, che perdeva un miliardo l’anno. La Merkel alza però un muro invalicabile, idem i sindacati. E il suo disegno salta».
E lo scenario cambia.
«Sposta tutto verso l’America, che diventa più forte di Torino. Il governo Obama, e poi ancora di più quello Trump, accentuano il cambiamento. E pure il sindacato si deve allineare agli standard internazionali della globalizzazione».
Sino alla fase più recente.
«FCA non poteva rimanere da sola. Oggi la punta del Gruppo è il marchio Jeep. Il discorso del polo del lusso formato da Alfa e Maserati non poteva funzionare. Quest’anno l’Alfa Romeo, se andrà tutto bene, arriverà a 150 mila pezzi. Siamo lontani dai 400 mila indicati nel nuovo piano industriale sino al 2022. Ci si potrà arrivare solo con investimenti, e se John Elkann non dovesse mettere quattrini…».
E i grandi rivali di FCA volano.
«Se lei vuole fare la guerra a Bmw, Audi, Mercedes e Toyota, guardi la loro offerta della gamma e controlli la quota di mercato di Mercedes e Bmw (oltre il 7%), mentre Alfa e Maserati sono al 2,5. Se non comandi a casa tua…».
Marchionne ha ottenuto grandi risultati, ma non era specializzato nel settore automotive.
«O, come dicono gli americani, un “car guy”. Ci è riuscito, però, solo fino a un certo punto. Oggi FCA, come dicono gli analisti, è un gruppo disfunzionale, che non ha funzionalità dei marchi. Un discorso sono i marchi americani Ram e Jeep, un altro Fiat e Chrysler, che definirei in estinzione».
Come vede il futuro del Gruppo?
«Mi preoccupa. Temo che l’America sia la parte forte e noi la parte debole. Jeep è uno dei marchi più americani, Trump farà di tutto per tenerlo là».
La Ferrari ha comunicato che Marchionne non potrà tornare al lavoro. La sua eredità più importante in FCA?
«La revisione totale della governance. Gli azionisti fanno gli azionisti e i manager hanno la responsabilità della conduzione dell’azienda, rispondono dei risultati e vengono valutati su questi. Prima non era così: anche se non venivano centrati, si andava dall’Avvocato e si diceva “Vedrà che il prossimo anno li raggiungeremo”. Sparisce la commistione fra manager e azionista».