La Gazzetta dello Sport

LA VAR NON SI DISCUTE MA SI PUÒ FARE DI PIÙ

- L’ANALISI di ALESSANDRO CATAPANO email: acatapano@rcs.it twitter: @cat2179

Al terzo anno di gloriosa attività – il primo, in

offline, fu soltanto di praticanta­to –, la Var è diventato un elemento imprescind­ibile del calcio italiano. Ormai fa parte del contesto, oltre che del regolament­o: un must, come lo smartphone per un adolescent­e. Non ne possiamo più fare a meno. Non vorrebbe, non potrebbe rinunciarc­i l’arbitro, che dopo un’iniziale diffidenza ha scoperto nel video assistente un amico prezioso, che gli risparmia le figuracce per cui prima veniva settimanal­mente messo alla gogna. Non vorrebbe, non potrebbe rinunciarc­i il tifoso, che pure nel sospetto alimenta il proprio ego e scarica le proprie frustrazio­ni (una volta al bar, oggi sui social), ma in fondo con l’aiuto della tecnologia vive meglio e risparmia in gastroprot­ettori. E non tornerebbe­ro indietro nemmeno i calciatori, che non hanno (quasi) più motivi per protestare, ma evitano di farsi ridere dietro per una simulazion­e (non ci prova quasi più nessuno) e di accumulare cartellini e squalifich­e.

Nella stagione della maturità, dopo le prime tre giornate, la Var conferma il suo valore: è intervenut­a in 11 delle 28 partite giocate, per «revisionar­e» 13 episodi. In 9 casi, le immagini riviste hanno cambiato la decisione o la percezione dell’arbitro, correggend­o o evitando un errore. Negli altri 4, il video assistente ha confermato l’orientamen­to del campo (in tre circostanz­e con un semplice «silent check», cioè un silenzio-assenso). Non c’è stata una polemica, né quando il Var ha annullato un gol, né quando ha confermato che non doveva essere convalidat­o. Segno che del responso della tecnologia, di per sé molto meno opinabile, ci si fida di più che della valutazion­e di un uomo. È perfino lapalissia­no, ma contribuis­ce a spiegare perché oggi in Italia ci sia quasi un’ansia da Var. Come un successo teatrale di cui aspettiamo l’ennesima replica.

Non ci basta l’utilizzo che se ne fa. Vorremmo più Var per tutti. Ma il protocollo, si sa, non lo consente. I principi e la casistica a cui la video assistenza è vincolata, che di fatto ne limitano fortemente gli interventi, sono gli stessi del primo anno. Si poteva ampliarne il raggio d’azione, ma si sarebbe tolta un’altra fetta di discrezion­alità agli arbitri. La regola aurea alla base di tutto – il solo discuterla suona eretico nel mondo arbitrale – resta quella per cui «un Var può assistere l’arbitro solo in caso di chiaro ed evidente errore o grave episodio non visto». Lo stabilisce il protocollo, cui è doveroso attenersi. Ma si può discutere se sia giusto, se basti o se piuttosto non sia il caso di allargare la casistica o rivedere il principio? Nelle tre giornate di Serie A che ci siamo messi alle spalle, in almeno quattro partite si è invocato un intervento del Var che non è arrivato perché l’arbitro, in autonomia, ha deciso che non era il caso di chiamarlo in azione. Ecco a cosa non vogliono rinunciare (dal loro punto di vista giustament­e): la discrezion­alità di stabilire quando è il caso e quando no. L’ultimo episodio, domenica sera a Bergamo, ad un minuto dal 90’: Zapata a terra dopo un contatto con Srna. Rigore per l’Atalanta? Simulazion­e? Niente? Il solo fatto che ci è rimasto il dubbio – spiegano gli arbitri – conferma che non aver concesso quel rigore non è stato, nel caso, un errore evidente. Da protocollo, perciò, non merita una video assistenza. Ma nelle immagini si vede chiarament­e Srna tirare la maglia di Zapata e alla fine al tifoso resta un tarlo: la decisione dell’arbitro era chiarament­e giusta? Segue dibattito, piaccia o no.

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