LA VAR NON SI DISCUTE MA SI PUÒ FARE DI PIÙ
Al terzo anno di gloriosa attività – il primo, in
offline, fu soltanto di praticantato –, la Var è diventato un elemento imprescindibile del calcio italiano. Ormai fa parte del contesto, oltre che del regolamento: un must, come lo smartphone per un adolescente. Non ne possiamo più fare a meno. Non vorrebbe, non potrebbe rinunciarci l’arbitro, che dopo un’iniziale diffidenza ha scoperto nel video assistente un amico prezioso, che gli risparmia le figuracce per cui prima veniva settimanalmente messo alla gogna. Non vorrebbe, non potrebbe rinunciarci il tifoso, che pure nel sospetto alimenta il proprio ego e scarica le proprie frustrazioni (una volta al bar, oggi sui social), ma in fondo con l’aiuto della tecnologia vive meglio e risparmia in gastroprotettori. E non tornerebbero indietro nemmeno i calciatori, che non hanno (quasi) più motivi per protestare, ma evitano di farsi ridere dietro per una simulazione (non ci prova quasi più nessuno) e di accumulare cartellini e squalifiche.
Nella stagione della maturità, dopo le prime tre giornate, la Var conferma il suo valore: è intervenuta in 11 delle 28 partite giocate, per «revisionare» 13 episodi. In 9 casi, le immagini riviste hanno cambiato la decisione o la percezione dell’arbitro, correggendo o evitando un errore. Negli altri 4, il video assistente ha confermato l’orientamento del campo (in tre circostanze con un semplice «silent check», cioè un silenzio-assenso). Non c’è stata una polemica, né quando il Var ha annullato un gol, né quando ha confermato che non doveva essere convalidato. Segno che del responso della tecnologia, di per sé molto meno opinabile, ci si fida di più che della valutazione di un uomo. È perfino lapalissiano, ma contribuisce a spiegare perché oggi in Italia ci sia quasi un’ansia da Var. Come un successo teatrale di cui aspettiamo l’ennesima replica.
Non ci basta l’utilizzo che se ne fa. Vorremmo più Var per tutti. Ma il protocollo, si sa, non lo consente. I principi e la casistica a cui la video assistenza è vincolata, che di fatto ne limitano fortemente gli interventi, sono gli stessi del primo anno. Si poteva ampliarne il raggio d’azione, ma si sarebbe tolta un’altra fetta di discrezionalità agli arbitri. La regola aurea alla base di tutto – il solo discuterla suona eretico nel mondo arbitrale – resta quella per cui «un Var può assistere l’arbitro solo in caso di chiaro ed evidente errore o grave episodio non visto». Lo stabilisce il protocollo, cui è doveroso attenersi. Ma si può discutere se sia giusto, se basti o se piuttosto non sia il caso di allargare la casistica o rivedere il principio? Nelle tre giornate di Serie A che ci siamo messi alle spalle, in almeno quattro partite si è invocato un intervento del Var che non è arrivato perché l’arbitro, in autonomia, ha deciso che non era il caso di chiamarlo in azione. Ecco a cosa non vogliono rinunciare (dal loro punto di vista giustamente): la discrezionalità di stabilire quando è il caso e quando no. L’ultimo episodio, domenica sera a Bergamo, ad un minuto dal 90’: Zapata a terra dopo un contatto con Srna. Rigore per l’Atalanta? Simulazione? Niente? Il solo fatto che ci è rimasto il dubbio – spiegano gli arbitri – conferma che non aver concesso quel rigore non è stato, nel caso, un errore evidente. Da protocollo, perciò, non merita una video assistenza. Ma nelle immagini si vede chiaramente Srna tirare la maglia di Zapata e alla fine al tifoso resta un tarlo: la decisione dell’arbitro era chiaramente giusta? Segue dibattito, piaccia o no.