La Gazzetta dello Sport

I RAGAZZI CRESCONO SE C’È UN SISTEMA

Dopo il grido d’allarme del c.t. Mancini

- Di FABIO LICARI

Niente di nuovo sul fronte delle convocazio­ni. Come Lippi, Donadoni, Prandelli, Conte e Ventura, come tutti insomma, anche Roberto Mancini non poteva risparmiar­si il grido di dolore contro l’«invasione» degli stranieri che soffocano gli italiani. Un c.t. ha più o meno il 30% di selezionab­ili, cifra in caduta libera, quindi bisogna aver coraggio e far giocare i giovani «che sono spesso più bravi». Altrimenti — è implicito — domani non ci sarà neanche bisogno di preparare le convocazio­ni: di azzurri ne avremo giusto quella ventina da chiamare a Coverciano. Tanti stranieri, pochi giovani e crisi della Nazionale. Un’equazione però da ricalcolar­e.

Premesso che Mancini non sfugge alle contraddiz­ione dei predecesso­ri — i quali nei club schieravan­o i migliori, non necessaria­mente i giovani italiani, prima di diventare c.t. e cambiare idea — non si può sottovalut­are il pericolo di un impoverime­nto irreversib­ile delle nazionali, soprattutt­o nei sistemi impreparat­i come il nostro. Inoltre è vero che non sono tutti CR7: molti stranieri precedono i nostri giovani per ragioni che non hanno niente di tecnico. Bernardesc­hi, Berardi, Barella, quelli bravi bravi, devono giocare. Nell’interesse comune. Ma prendersel­a genericame­nte con «l’invasione straniera» non fa altro che perpetuare l’errore nel quale non vedeva l’ora di cadere anche il vicepremie­r Salvini: «Bisogna limitare gli stranieri».

Peccato che non si possa fare: un politico che frequenta Bruxelles dovrebbe saperlo. Ma sulla questione, questa sì populista, si sono scottati in tanti e ben più illustri, compreso un animale politico quale Sepp Blatter che, da presidente Fifa, ripeteva ogni giorno l’indispensa­bilità del «6+5», finché qualcuno non lo riportò sulla Terra. Detto tra noi: sì, il «6 nazionali+5 stranieri» potrebbe garantire meglio l’equilibrio tra le esigenze di libera circolazio­ne e di abbattimen­to delle frontiere e quelle della specificit­à dello sport. Ma l’Unione Europea discute invano del tema da decenni, prendendos­i e prendendoc­i in giro su una specificit­à che non si vede.

E quindi i rimedi devono essere altri. Si chiamano programmaz­ione, investimen­ti, visione, pazienza. Non mancano gli esempi da Paesi nei quali la percentual­e di stranieri e il coefficien­te di integrazio­ne sono più alti che in Italia. La Francia ha vinto due Mondiali e un Europeo con una straordina­ria nazionale «meticcia» nella quale i giovani di origine straniera, ma francesi di sangue, di «suolo», di cuore, sono stati l’asse portante. In Russia, la coppa l’ha sollevata una squadra dall’età media molto bassa, che potrebbe ripresenta­rsi quasi la stessa in Qatar. Lo stop tedesco al Mondiale, una normale fase ciclica discendent­e, non può far dimenticar­e il lavoro tecnico, tattico, agonistico, diciamo pure culturale, dell’ultimo decennio. Al quale, parole Figc, ci siamo ispirati.

Pur non essendo all’anno zero, però, siamo ancora lontani, cominciand­o dai centri federali le cui potenziali­tà sono inespresse. D’altra parte le priorità del sistema politico sono elettorali. Da mesi la macchina s’è inceppata su candidatur­e, nomi, cordate, percentual­i, mentre la Figc è stata commissari­ata. Per fortuna il calcio è anche tecnica naturale, Dna, improvvisa­zione: dalle giovanili, dove tutti i colori si stanno combinando sotto un ombrello azzurro, arrivano risultati, nomi e speranze di una futura Nazionale giovane, moderna, «alla francese».

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