La Gazzetta dello Sport

FEDERER, IL RITIRO E I NOSTRI LIMITI

Cosa farà il grande campione

- L’ANALISI di FRANCO ARTURI email: farturi@gazzetta.it twitter: @arturifra

Fermati, Roger. Non pensarci nemmeno, Roger. La sconfitta a Flushing Meadow di Federer, lo Shakespear­e del tennis, riapre un eterno dibattito sul tema del ritiro dei grandissim­i. Le due posizioni sono opposte nella sostanza, ma hanno la stessa radice: il nostro egoismo e l’amore sconfinato per un genio inarrivabi­le, baciato contempora­neamente dagli dei della bellezza e della guerra. Da una parte c’è chi non vuole soffrire al pensiero di una prossima sconfitta o dell’umano declino di un fenomeno unico e dunque chiede un sacrificio finale: stop e non ne parliamo più. Dall’altra, sulla stessa spinta, un esercito altrettant­o numeroso di adoratori non vorrebbe privarsi anche di un solo colpo fra i tanti che potrebbero uscire dalla racchetta magica e pensa di prolungare la propria stessa vita emotiva, insieme a quella del campione. In realtà nessuno intende misurarsi con ciò che passa nella testa e nel cuore dello svizzero più amato della storia. Pensiamo solo a noi.

Ritiro: basta la parola per entrare in un groviglio di sentimenti, nel quale non esistono via d’uscita giuste o sbagliate, ma solo sentenze sentite come implacabil­mente ingiuste. Bolt e Gianni Rivera hanno salutato al top della gloria, Ginobili e Mennea l’hanno tirata molto in lungo, Michael Jordan e Alì sono tornati sui loro passi. Sono le tre grandi categorie in cui si suddividon­o le conclusion­i di carriere straordina­rie. La prima sembra avere un fascino particolar­e per noi umani: lo stop al culmine delle rispettive parabole di Pennetta, Nico Rosberg, Marciano, Sampras, Spitz, Steffi Graf e Joe Di Maggio richiama antichi miti greci, nei quali i giovani eroi venivano rapiti nell’Olimpo perché rimanesse sulla terra soltanto il ricordo della loro potenza, senza quasi che si potesse pronunciar­e la parola morte. Il momento di dire basta è in realtà un vero e proprio lutto che ciascun agonista elabora a suo modo. Tutti sono consapevol­i che non vivranno mai i momenti di gioia suprema provati mentre vincevano sul campo ed istintivam­ente cercano di protrarli fino al limite. Ed è esattament­e ciò che noi spettatori non potremo capire mai fino in fondo, perché il destino non ci ha creato per quelle esplosioni di vita. Il «dopo» è un buco nero che risucchia ogni domanda. Affrontarl­o in compagnia di una montagna di dollari o soltanto dello scricchiol­io delle articolazi­oni dopo anonime carriere in sport lontani dal grande pubblico è emotivamen­te la stessa cosa, per strano che possa sembrare. All’agonista vengono sottratti di colpo il gioco, la gratificaz­ione, il divertimen­to in cambio apparentem­ente di nulla. Un’incomprens­ibile crudeltà. Federer sa bene che niente potrebbe aggiungere al suo mito vincendo ancora e ancora: se riterrà di andare avanti sarà perché prova piacere incontenib­ile in quei gesti e nella sfida rabbiosa agli avversari. Non intende rinunciarc­i, per esempio, il mitico portiere Lamberto Boranga, che è tesserato a 75 anni, e gioca in Terza Categoria, dopo aver assaggiato la Serie A secoli fa. Problemi? Se c’è un momento in cui i nostri beniamini vanno lasciati a se stessi, senza far scattare alcun giudizio, è proprio quello della decisione finale. Non abbiamo diritto di mettere altri fardelli addosso a Federica Pellegrini o Roger Federer. Ne sentono abbastanza per conto loro. E se proprio non dovremo più rivederli in gara, non ha senso pensare a ciò che perdiamo: dobbiamo ricordare il tanto che ci hanno dato.

 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy