FEDERER, IL RITIRO E I NOSTRI LIMITI
Cosa farà il grande campione
Fermati, Roger. Non pensarci nemmeno, Roger. La sconfitta a Flushing Meadow di Federer, lo Shakespeare del tennis, riapre un eterno dibattito sul tema del ritiro dei grandissimi. Le due posizioni sono opposte nella sostanza, ma hanno la stessa radice: il nostro egoismo e l’amore sconfinato per un genio inarrivabile, baciato contemporaneamente dagli dei della bellezza e della guerra. Da una parte c’è chi non vuole soffrire al pensiero di una prossima sconfitta o dell’umano declino di un fenomeno unico e dunque chiede un sacrificio finale: stop e non ne parliamo più. Dall’altra, sulla stessa spinta, un esercito altrettanto numeroso di adoratori non vorrebbe privarsi anche di un solo colpo fra i tanti che potrebbero uscire dalla racchetta magica e pensa di prolungare la propria stessa vita emotiva, insieme a quella del campione. In realtà nessuno intende misurarsi con ciò che passa nella testa e nel cuore dello svizzero più amato della storia. Pensiamo solo a noi.
Ritiro: basta la parola per entrare in un groviglio di sentimenti, nel quale non esistono via d’uscita giuste o sbagliate, ma solo sentenze sentite come implacabilmente ingiuste. Bolt e Gianni Rivera hanno salutato al top della gloria, Ginobili e Mennea l’hanno tirata molto in lungo, Michael Jordan e Alì sono tornati sui loro passi. Sono le tre grandi categorie in cui si suddividono le conclusioni di carriere straordinarie. La prima sembra avere un fascino particolare per noi umani: lo stop al culmine delle rispettive parabole di Pennetta, Nico Rosberg, Marciano, Sampras, Spitz, Steffi Graf e Joe Di Maggio richiama antichi miti greci, nei quali i giovani eroi venivano rapiti nell’Olimpo perché rimanesse sulla terra soltanto il ricordo della loro potenza, senza quasi che si potesse pronunciare la parola morte. Il momento di dire basta è in realtà un vero e proprio lutto che ciascun agonista elabora a suo modo. Tutti sono consapevoli che non vivranno mai i momenti di gioia suprema provati mentre vincevano sul campo ed istintivamente cercano di protrarli fino al limite. Ed è esattamente ciò che noi spettatori non potremo capire mai fino in fondo, perché il destino non ci ha creato per quelle esplosioni di vita. Il «dopo» è un buco nero che risucchia ogni domanda. Affrontarlo in compagnia di una montagna di dollari o soltanto dello scricchiolio delle articolazioni dopo anonime carriere in sport lontani dal grande pubblico è emotivamente la stessa cosa, per strano che possa sembrare. All’agonista vengono sottratti di colpo il gioco, la gratificazione, il divertimento in cambio apparentemente di nulla. Un’incomprensibile crudeltà. Federer sa bene che niente potrebbe aggiungere al suo mito vincendo ancora e ancora: se riterrà di andare avanti sarà perché prova piacere incontenibile in quei gesti e nella sfida rabbiosa agli avversari. Non intende rinunciarci, per esempio, il mitico portiere Lamberto Boranga, che è tesserato a 75 anni, e gioca in Terza Categoria, dopo aver assaggiato la Serie A secoli fa. Problemi? Se c’è un momento in cui i nostri beniamini vanno lasciati a se stessi, senza far scattare alcun giudizio, è proprio quello della decisione finale. Non abbiamo diritto di mettere altri fardelli addosso a Federica Pellegrini o Roger Federer. Ne sentono abbastanza per conto loro. E se proprio non dovremo più rivederli in gara, non ha senso pensare a ciò che perdiamo: dobbiamo ricordare il tanto che ci hanno dato.