NATIONS LEAGUE QUANTI TORMENTI
Dopo l’avvio della nuova competizione
La proposta di riesumare dall’archivio una terza coppa europea ha contribuito ad agitare il dibattito sulla modernità dello sport (e nel caso specifico, del calcio). Il fatto che ci fosse già (fino al 1999, si chiamava Coppa delle Coppe) è dettaglio scivoloso. Il concetto di attualità ne verrebbe seriamente insidiato, visto che ci troveremmo di fronte a una retromarcia di un secolo.
Coinvolgere tutti è un principio universalmente corretto, anche se predicarne l’esercizio dopo aver accentuato le differenze tra ricchi e poveri non aiuta a risolvere il problema: se mai, lo maschera. Non si tratta di essere nostalgici del «c’era una volta». Da come si è espresso il consorzio europeo dei club, sembra, al contrario, che non si sia più così felici, e così sicuri, del «c’è stata una svolta».
L’altra faccia della medaglia è la Nations League. Chi scrive, ne avrebbe fatto volentieri a meno. La volle Michel Platini, è appena decollata, ha già segnato piccoli, grandi tormenti. Si gioca per i tre punti, sempre e comunque, le amichevoli sono state ridotte e deportate nei gulag di un calendario prigioniero dei milioni che fa girare, vorticosi. Ennesimo simbolo di una modernità che non ci basta più e per questo abbiamo ribattezzato, con vezzo filosofico, post-modernità.
Eppure la democrazia è anche noia, non solo ebbrezza; sabato del villaggio, non solo giorno di festa, come ci ha insegnato la «donzelletta» di Giacomo Leopardi. Tutto deve essere «vero», viceversa, a cominciare dalle partite, e perché una partita diventi vera o almeno verosimile, deve esserci in palio qualcosa, in modo da cancellare la pace degli anni dispari (ma c’è chi preferisce dire il tedio, il buco), le stagioni che Europei e Mondiali usavano per rilassarci, per offrirci alternative e diversivi che, deduco, non hanno funzionato.
Che cosa si rimproverava agli sterili collaudi d’antan? L’eccesso di cambi, quella sfibrante processione che nel basket risulterebbe addirittura casta, mentre nel calcio rappresenta un attentato alla esplosività della trama. L’aspetto buffo è che la Nations, con le sue pretese di competizione ufficiale, ha risolto questo problema, riportando le staffette a un massimo di tre, proprio nel momento in cui gli allenatori e i medici spingono per moltiplicarle.
Rimane, sullo sfondo, l’abolizione dell’attesa. La caccia spietata a tutto ciò che non abbia un’etichetta, un trofeo (non importa quale, purché respiri); il rutto da abbuffata preferito allo sbadiglio digestivo. La quantità non ha solo falciato la qualità, ma mira ad annettersi gli spazi neutri, vuoti. Peccato. L’attesa ha un suo fascino, un suo piacere. Persino Helenio Herrera la studiava per trasformarla in micidiale fionda. Lo racconta Fiora Gandolfi, moglie del Mago. Il silenzio non è necessariamente sintomo di debolezza, di «amichevole» sottomissione, prova ne sia la tattica di José Mourinho, che vi ricorre per caricare le periodiche invettive: la quiete prima delle tempeste.
Nell’ambito della guerra che la spettacolarizzazione dello sport ha dichiarato alla mera performance agonistica, e ammesso che non resti uno sdolcinato spot, mi ha colpito l’idea di Pep Guardiola: concludere la carriera là dove l’aveva cominciata, nel vivaio del Barcellona. Ulisse che torna a Itaca e a scuola, soprattutto: costituirebbe l’attesa perfetta di un nuovo viaggio, di una nuova sfida. Narrare e spiegare le emozioni realizzate, e non semplicemente sognate, in giro per il mondo. Quel gioco da ragazzi, sempre.