Pupi Avati, parola al Maestro «Io, bartaliano, ora tifo Nibali»
La casa bolognese del Maestro era a Via Saragozza. È da lì che si passa per salire sul San Luca. «Ormai vivo a Roma da cinquant’anni – spiega il grande regista Pupi Avati – ma resto bolognese, naturalmente. Che la grande partenza del Giro d’Italia sia dalla mia Bologna è una notizia bellissima. L’anno scorso fu da Israele, vero? Una eredità enorme. Ma Bologna ha le spalle larghe». Il 3 novembre compirà 80 anni: Pupi Avati è nato nel 1938, l’anno del primo successo al Tour de France di Gino Bartali. «Io ero bartaliano».
Pupi Avanti, lei è un grande appassionato di ciclismo?
«Non troppo. Ma in quegli anni, già da bambino, in Italia si doveva essere per forza o coppiano o bartaliano. Te lo chiedevano tutti, fin dalle elementari. ‘Per chi tieni’? Si definiva così un sistema di appartenenza che dipendeva dalle tue scelte. Di solito chi era per Bartali era anche milanista, cattolico, per Ettore. I coppiani? Inter, di famiglia agnostica, per Achille. E così via, a cascata».
Perché Bartali le piaceva di più?
«Mi ricordava di più la mia natura. Moderata, basata su un sistema di tradizione cattolica, di famiglia democristiana. Bartali era l’uomo dei pellegrinaggi, dei santuari. Coppi era più trasgressivo, estroso, geniale».
Ciclismo e società italiana: quali legami?
«Più di quanto si possa immaginare. Il Processo alla tappa di Sergio Zavoli fece diventare il ciclismo popolare e inventò uno stile, era un talk show di analisi sportiva abbastanza vivace, mentre ai tempi le tribune politiche erano più ingessate. Fu un grande anticipo dei tempi».
Che cos’è il Giro d’Italia per lei?
«Uno spettacolo straordinario. E il racconto televisivo è diventato eccellente, il meglio che si possa vedere. Anche la Formula 1 è diventata sempre più raffinata e tecnica. Però lì l’essere umano non lo vedi, è nascosto nell’auto, o sotto il casco. Il ci-
clismo lo espone senza nessun filtro. Nel bene e nel male».
E il Colle di San Luca che cosa rappresenta?
«Per i bolognesi, anche i non credenti, qualcosa di speciale. Il giorno della Processione c’è tutta Bologna in strada. Mia madre ogni venerdì saliva a piedi al Santuario, e prima degli appuntamenti importanti ci portava i figli. Ricordo che la curva delle Orfanelle era ripidissima. Chi ci pedalava doveva mettere il piede a terra».
L’ultima volta che il Giro ci era stato fu nel 2009. Lei girò un mini documentario sul passaggio a San Luca.
«Avevo il ricordo di quei ciclisti che mettevano il piede a terra alle Orfanelle. Con tre macchine da presa, mi aspettavo di riprendere qualche cosa del genere. Invece i ciclisti professionisti ci passavano a una velocità che a me pareva supersonica. Volavano via, si dissolvevano in un attimo. Utilizzai pochissima pellicola».
Il ciclismo di oggi: cosa conosce?
«Mi ha colpito la morte tremenda di Michele Scarponi. Tra i campioni, il solo che posso citare è Vincenzo Nibali. Mi piace tantissimo. Vorrei che fosse al Giro 2019, e che lo vincesse».