Ancelotti-Parma, che radici Lì diventò campione e tecnico
●Il club del decollo: da giocatore e da allenatore. «Avevo le idee confuse». Poi ha vinto tutto
Le radici sono tutto, e per un emiliano come lui, forse, sono piantate ancora più in fondo al terreno. Lo tengono saldo, quando il vento fischia e la tempesta infuria. Gli ricordano da dove viene e anche dove sta andando. Carlo Ancelotti da Reggiolo, provincia di Reggio Emilia, è il Giovannino Guareschi del calcio moderno. Con la sua calma e la sua semplicità, mette d’accordo il Diavolo e l’Acquasanta, Don Camillo e Peppone, Mertens e Insigne, come prima gli capitò con Zidane e Del Piero, Shevchenko e Inzaghi, Cristiano Ronaldo e Bale. La regola aurea non è il 4-4-2 o il 4-3-3, ma il buonsenso. Che significa capire, ascoltare, a volte chiudersi le orecchie e sempre condividere. Questa sera, quando di fronte al suo Napoli vedrà le maglie del Parma, è impossibile che non ripensi a una quarantina d’anni fa: allora era lui a indossare quella divisa, il numero 10 sulla schiena e un sogno da realizzare, diventare un calciatore professionista. Ci è riuscito e poi, siccome ha lo spirito testardo dei contadini, quando ha sentito che le ginocchia non le reggevano più, si è inventato un nuovo lavoro, si è seduto in panchina e ha cominciato a insegnare quello che lui aveva imparato da Cesarone Maldini, da Nils Liedholm e da Arrigo Sacchi.
SCELTE Proprio a Parma Carletto ha esordito in Serie A come allenatore, era la stagione 1996-97. Fu lui stesso a confessare: «Avevo le idee confuse, facevo giocare Thuram terzino e Apolloni centrale. Poi mi sono corretto». Non ebbe dubbi quando dovette approvare la cessione di Zola che voleva allargarsi sulla fascia per lasciare i due posti d’attacco a Chiesa e a Crespo. E non tentennò nemmeno quando gli comprarono Roberto Baggio, e lui disse «no». Non se ne pentì subito, ma in seguito capì che l’integralismo del 4-4-2 non avrebbe pagato, e siccome lui voleva durare nel tempo si adeguò, si fece un po’ morbido, accettò il compromesso fino a creare quella meravigliosa macchina da gioco che fu il suo Milan, nel quale stavano assieme Rui Costa, Seedorf, Pirlo e Rivaldo. Grazie al suo carattere che è un misto di Peppone e Don Camillo, appunto, ha superato i mari più agitati, è sopravvissuto a presidenti come Abramovich, Berlusconi, Florentino Perez, e ha sopportato anche le critiche che, in cuor suo, pensava di non meritare. Al Parma, ad esempio, nonostante fosse un suo figlio, non si sentì mai amato.
Gli facevano pesare di avere scelto Crespo al posto di Zola,
gli rimproveravano altre decisioni, ma alla base di tutto c’era la solita vecchia storia: nessuno è profeta in patria. Salvo poi tifare per lui, e magari esibirlo come amico, quando vince altrove.
A TAVOLA Parma, però, al di là delle incomprensioni calcistiche ormai superate e sotterrate da una valanga di successi, resta il suo nido. Qui hanno casa i suoi figli, Katia e Davide, qui torna quando può per farsi una bella mangiata di anolini e prosciutto e per ascoltare le ultime barzellette degli amici. Da lontano ha seguito la rinascita del Parma e, come un vero tifoso, ha esultato al momento del trionfo. Ma, riservato e rispettoso dei ruoli, quell’esultanza non l’ha esibita: il palcoscenico va lasciato ai protagonisti.