La Gazzetta dello Sport

DA MESSI A FEDERER CHI INCIDE DI PIÙ?

Sport di squadra e individual­i: quanto pesa l’asso

- LA ROVESCIATA di ROBERTO BECCANTINI

L’influenza dei Grandi è un tema che, dalle metafore alle iperboli, la letteratur­a rilancia spesso. Meglio essere numeri uno negli sport di squadra o negli sport individual­i? In parole povere: cosa rappresent­ano i compagni per un fuoriclass­e, degli alleati o dei cecchini? Fuoco o fuoco amico? Prendete Leo Messi e dategli una racchetta; prendete Roger Federer e mettetegli vicino una decina di partner e non uno, al massimo, come nel doppio. Chi ci guadagna? Chi ci perde?

A Gianfelice Facchetti, attore e figlio di Giacinto, piace la pressione del e sul singolo, piace la facoltà di giocarsi tutto senza le spinte o gli ostacoli che il resto del gruppo può fornire. In fin dei conti lo sport è teatro, non cinema: non si può sospendere la scena e girarla di nuovo. Alcune discipline - il basket fra queste - offrono il time-out, un pugno di minuti da riempire di consulti volanti, ma sempre a recita ferma, sempre per orientare, e non domare, l’attimo fuggente.

Se l’ambito collettivo concede il rifugio delle tensioni condivise e dei compiti distribuit­i, Giorgio Rondelli, allenatore di atletica leggera, ex mezzofondi­sta, fatica a prendere posizione: e non perché gli manchi il coraggio; perché «il genio in quanto tale non ha bisogno di supporti che, fra parentesi, potrebbero essergli di peso».

A 32 anni Usain Bolt, tiranno della velocità, si è buttato sul football. Da Dortmund e Manchester (United) alla meno impegnativ­a Australia. Ecco qua un trasloco che costituisc­e materia di studio. LeBron James ha portato Cleveland alle finali Nba, poi perse con i Warriors di Golden State. La qualità media della rosa non lo ha aiutato, nei passaggi più scabrosi della serie avrà invidiato Novak Djokovic o Rafa Nadal, titolari del proprio destino in ogni frangente. Se Federer perde, perde lui. Non c’è spazio per un supplement­o di indagini: non serve. Se Cristiano Ronaldo perde, perde «anche» lui, o «soprattutt­o» lui, visto il livello altissimo che ha raggiunto, ma non «solo» lui. E questo è un sollievo o no? Un’attenuante o un’aggravante?

Di Diego Armando Maradona scrivemmo che aveva vinto la Coppa del Mondo del 1986. Diego, più ancora che l’Argentina di Diego. A quei livelli, i «suoi» livelli, gli avrebbe fatto comodo abbandonar­e la nave e competere senza intrusi, senza complici: che pure avevano un senso in chiave tattica, ma gli creavano problemi nei dettagli tecnici.

La comitiva non sempre è stampella: a volte diventa trappola. Nel tennis, nel pugilato, chi scende sul court o sale sul ring non dipende da come si è svegliato il branco, dalle frecce tracciate alla lavagna. Nel calcio, viceversa, se nasci Alfredo Di Stefano o Johan Cruijff rischi di dover giocare persino contro i tuoi: quelli, almeno, incapaci di reggere standard di rendimento così ossessivi, così esclusivi. Nello stesso tempo, capita che il coro venga in soccorso al tenore. Federer è sempre Federer dovunque, comunque e contro chiunque, padrone di una classe superba e schiavo degli errori, del logorio che l’età infligge. Messi, in compenso, è infinito nel Barcellona e molto più «finito» in nazionale, a conferma che il pathos, i nervi e i requisiti sono variabili che, fra una tribù e l’altra, determinan­o sbalzi romanzesch­i.

Federer in una squadra di calcio, Messi, Cristiano o LeBron sull’erba di Wimbledon. Sarebbe filosofica­mente meraviglio­so. Chi esplora lo sport ha la presunzion­e di raccoglier­ne i messaggi, di meritarne l’eredità. Ma è soltanto un’illusione.

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