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Il destino bianconero nelle Coppe
Potremmo cavarcela con la solita accusa al solito sicario: il destino. Le ragazze della Juventus hanno debuttato in Champions League e sono state subito eliminate dalle danesi del Broendby: 2-2 in casa e 0-1 in trasferta. Sessant’anni fa, il 1° ottobre del 1958, un’altra Juventus, la Juventus di Giampiero Boniperti, John Charles e Omar Sivori perdeva 7-0 a Vienna, contro il Wiener Sportklub, e veniva cancellata anch’essa dalle mappe. Era il battesimo nella Coppa dei Campioni e, all’andata, la tripletta di Sivori aveva scolpito un 3-1 che, sul momento, sembrò uno scudo. Voce di popolo: solo un «gufo» avrebbe potuto collegare i due secoli e i due fiaschi; i maschi alle femmine, Omar a Barbara (Bonansea). E invece no: o almeno spero di no. Secondo Albert Einstein, «le coincidenze sono il modo di Dio di restare anonimo». La Juventus non conquista la Champions dal 1996, quando superò l’Ajax ai rigori, mentre l’ultimo trofeo in assoluto risale all’Intertoto del 1999, quando l’allenatore era Carlo Ancelotti. C’era la Triade, ma Carletto, appunto, non andò oltre una «targa-scorciatoia» che dava accesso alla Coppa Uefa e che i padri fondatori soppressero nel 2008.
I puristi che non si fidano dell’Intertoto, o comunque non lo considerano all’altezza, arretrano il confine alla Supercoppa strappata al Paris Saint-Germain e alzata a Palermo il 5 febbraio 1997, dopo uno strepitoso 6-1 al Parco dei Principi. Il tecnico era Marcello Lippi. Questi sono fatti, non parole: e nemmeno ricorrenze. Se il Liverpool, a secco dal 1990, è il grande ritardatario in materia di campionati, Madama è la grande ritardataria in materia di scalpi europei. Tra lo 0-1 del Broendby e lo 0-7 di Vienna non ci sono di mezzo solo retorica o frattaglie di bieca statistica. C’è molto di più, a cominciare da una società-fabbrica che afferrò tardi lo spirito del tempo. Quanto valgono sette scudetti consecutivi al cambio della borsa di Nyon? E quanti rimpianti o rimorsi agitano sette finali perse su nove? In principio fu la Coppa dell’Europa Centrale: erano gli anni Trenta e, nonostante lo squadrone del Quinquennio, la Juventus pedalò all’ombra del Bologna di Angiolino Schiavio e Raffaele Sansone, «campione» nel 1932 e 1934, tra bagliori, risse e squalifiche.
Le coccole domestiche hanno contribuito a marchiare il bivio, la Juventus sta all’Italia come il Real Madrid al mondo, ed essere stata la prima ad annettersi tutte e tre le coppe non allontana i fantasmi né smacchia le responsabilità. Al netto degli episodi che il calcio stipa nello zaino della sua saga, sono i rilievi socio-ambientali ad aver tracciato le differenze più profonde. Juventus, Inter, Milan: da una parte, Torino; dall’altra, Milano. Due filosofie, non semplicemente due città divise da 45 minuti d’alta velocità. Una famiglia, tante famiglie. Una storia, tante storie.
Sul piano emotivo e campanilistico la contabilità degli scudetti tira sempre, ma è l’Europa la bilancia «transnazionale» (e globale) sulla quale salire per pesarsi, così come la Juventus rimane il metro «nazionale» con cui calibrare le gerarchie condominiali. Ecco perché, più ancora che la squillante tripletta di Paulo Dybala allo Young Boys, è il risultato della squadra femminile a riproporre - nel suo piccolo e nel suo malizioso - l’eterno e scabroso rapporto tra il continente e la Juventus, ormai più giovane in sede che in campo. Con l’indotto che preme e i fatturati che scalpitano, il problema è così assillante e vasto che, per risolverlo, Andrea Agnelli ha scritturato un marziano di 33 anni e ammainato la bandiera di Beppe Marotta.