La Gazzetta dello Sport

SOLDI, TALENTI E PASSIONE DA ALI A PACQUIAO

I SUCCESSI CON MUHAMMAD, LA RIVALITA’ CON KING, IL RIMPIANTO DI KINSHASA: A QUASI 87 ANNI IL CELEBRE PROMOTER E’ ANCORA IN PISTA. LA SUA PROSSIMA SCOMMESSA PARLA ITALIANO: VIANELLO

- IL RITRATTO di MASSIMO LOPES PEGNA

Fra due mesi compirà 87 anni, ma Bob Arum non arretra di un passo, come da oltre mezzo secolo suggerisce di fare ai suoi pugili sul ring. L’altro giorno il suo faccione pacioso e il sorriso furbo erano sbucati a Oakland, in California, alla conferenza stampa dei supermosca Ancajas e Santiago. In un certo senso, boxe minore. Alla sua celebre Top Rank, dopo che se n’è andato Manny Pacquiao, manca la grande star, ma nella scuderia rimangono in più di 80. Sempre a caccia di talenti in tutto il mondo, Arum: l’ultimo entrato è il nostro Guido Vianello (non c’è ancora l’ufficialit­à: 5 anni di contratto e debutto al Madison Square Garden di New York previsto l’8 dicembre).

L’ITALIA E ALI Con la voce bassa e rassicuran­te Bob spiega: «Ora con YouTube non ci sono più segreti. Arrivano le segnalazio­ni e a noi basta metterci davanti al computer per osservare decine di video». Rispolvera le memorie italiane: «Ho lavorato tanto con Rodolfo Sabatini e ho bellissimi ricordi di Nino Benvenuti e Nino La Rocca». L’ex avvocato cresciuto a Crown Heights, il quartiere ebreo ortodosso di Brooklyn, di talento se ne intende. Fino a 35 anni non aveva mai visto un match di boxe, ma la noble art l’aveva studiata a fondo quando era procurator­e distrettua­le sotto Robert Kennedy e fece le pulci a certe truffe legate alla sfida dei massimi del ’62 fra Sonny Liston e Floyd Patterson. Ci dice: «In seguito mi presentaro­no Muhammad Ali e nel ’66 a Toronto organizzai Ali contro Chuvalo. Fu il mio primo incontro e anche la prima volta che vidi la boxe dal vivo». Che non volesse più il ruolo di grande accusatore gli fu chiaro già nel 1963, quando dopo aver incriminat­o un banchiere, questi si suicidò. Anni dopo Bob confessò: «Provai profonda vergogna e capii che quello in procura non era più il mio lavoro».

KINSHASA E KING Dopo quel primo match con Ali, sarebbe rimasto nell’ombra del Più Grande in altre 24 occasioni, ma gli sfuggì quella poi diventata storica: anno 1974, Ali contro Foreman, «The rumble in the jungle» a Kinshasa, in Zaire. Racconta: «Don King fu più abile di me. Mi soffiò l’affare offrendo 5 milioni di dollari a entrambi, a quei tempi cifre poco realistich­e. Ma poi Don riuscì a coinvolger­e e a farsi aiutare economicam­ente dal dittatore Mobutu. Quel match è uno dei miei più grandi rimpianti. Anche se la vittoria di Ali stemperò quell’amarezza». La rivalità con Don King è stata una vera guerra di potere. Fra il 1970 e metà degli Anni 90 si sono contesi i mondiali più prestigios­i, cercando di rubarsi i pugili a vicenda. Bob tentò di soffiare Julio Cesar Chavez a Don, e King provò a convincere Marvin Hagler a combattere per lui. Andò dalla mamma di Marvin e le disse: «Ma perché suo figlio vuole continuare a servire la causa di quell’ebreo?». Quando si trovarono nella stessa stanza d’albergo per contrattar­e il mondiale fra Oscar De La Hoya (Arum) e Felix Trinidad, non si rivolsero la parola: discutevan­o attraverso i loro collaborat­ori. Invece l’anno scorso, ormai anziani, si sono seduti uno al fianco dell’altro in una trasmissio­ne di Espn dove si sono simpaticam­ente bacchettat­i e incensati.

I PREDILETTI Quando gli chiediamo quali fra le centinaia di pugili sfilati alla Top Rank siano stati i suoi favoriti, riflette solo per qualche secondo: «Ali. Ma ho nel cuore anche Hagler, che ora è mezzo italiano; Oscar De La Hoya e Alexis Arguello». Fra le sue imprese più leggendari­e, enfatizza l’aver creduto nella seconda carriera di Foreman, che grazie a lui nel 1994 tornò a vincere il Mondiale dei massimi a quasi 47 anni contro Michael Moorer. E il giorno in cui promosse l’integrazio­ne nello stadio di Pretoria con il Sudafrica ancora in stato di apartheid. Aveva organizzat­o l’incontro fra il bianco locale Gerrie Coetzee e l’americano nero John Tate pensando all’allettante lato economico, sottovalut­ando l’aspetto razziale. Quando negli Usa i leader, come Jesse Jackson e Al Sharpton, lo accusarono di appoggiare la politica sudafrican­a, Arum si rese conto dell’errore commesso. «Allora andai in conferenza stampa e inventai che il ministro dello Sport mi aveva assicurato che avrebbe permesso l’ingresso anche alle persone di colore. Quando il governo smentì, dissi che avrei onorato quel contratto, ma che non avrei mai più organizzat­o un match nel loro Paese. Un paio di giorni dopo accettaron­o le mie condizioni». L’ultimo fiore all’occhiello è l’organizzaz­ione della sfida supermilio­naria fra Mayweather e Pacquiao del 2015. C’è una sua frase diventata cult che lo descrive perfettame­nte: «Ok, ieri vi ho raccontato un sacco di bugie, ma oggi vi sto dicendo la verità». Ci dice che la boxe, nonostante la popolarità e la concorrenz­a delle arti marziali, ha un futuro importante: «Perché è uno sport globale, come il calcio». Ed è certo di riuscire a organizzar­e ancora tanti incontri: «Il segreto della mia longevità? La marijuana. La fumo da quando avevo 35 anni». Ma il suo grande desiderio è un altro: «Esserci quando Pacquiao diventerà presidente delle Filippine».

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GETTY Bob Arum tra Jimmy Ellis, a sinistra, a Muhammad Ali, durante la presentazi­one del match che si disputò il 26 luglio 1971 all’Astrodome di Houston
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Bob Arum con l’altro grande promoter Don King prima del Mondiale tra De La Hoya e Chavez del 1996: sullo sfondo, un Mike Tyson spettatore AP

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