INNAMORATI DI UN’ITALIA A COLORI
S ull’Italia delle «manine» malefiche plana, benefica e possente, la manona di Paola Egonu. E finalmente i conti tornano: lo spread almeno nel volley ci arride...
Sull’Italia delle «manine» malefiche — quelle intente a modificare proditoriamente gli articolati del governo mandando il Paese in confusione — plana, benefica e possente, la manona di Paola Egonu. Ed è una sentenza di chiarezza abbagliante. Non parole ma il rombo secco di un fulmine che si scarica sul parquet. Finalmente i conti tornano, lo spread almeno nel volley ci arride, la felicità e l’orgoglio viaggiano a velocità supersonica con la palla che annichilisce le cinesi e ci porta alla finale mondiale: dopo oltre due ore di tiramolla al cardiopalmo, la diciannovenne schiacciatrice azzurra, un fenomeno di eleganza e atletismo, decide di graziare le nostre coronarie mettendo a terra il colpo del kappaò dopo una manciata di match point leggiadramente gettati al vento da una squadra giovane e bellissima. Infatti c’è un popolo intero che negli ultimi giorni ha perso la testa per lei, intesa come collettivo, e la segue in tv, al computer o magari di straforo, in orario di lavoro, sul cellulare. Un piccolo miracolo di coesione nazionale.
Ora però, calma e gesso. E dita incrociate. Oggi affrontiamo l’ultima battaglia con la Serbia, osso durissimo a cui lasciamo volentieri, scaramanticamente, i favori del pronostico. Al contrario delle elezioni, qui trionfa uno solo. L’argento ha una luce preziosa ma l’oro brilla come il sole. Il fatto che ieri le azzurre abbiano vinto prima con la testa e solo dopo col cuore e gli altri muscoli, suggerisce che la finale è comunque aperta e nessun sogno è proibito. Il titolo mondiale manca dal 2002, l’unico che abbiamo vinto, ed erano gli anni della Togut, della Lo Bianco, della divina Piccinini. Da allora ad oggi il volley femminile è enormemente cresciuto sino a diventare lo sport più popolare e diffuso tra le ragazze. La cavalcata giapponese, comunque si concluda, non è frutto dello stellone italico bensì del lavoro della Federazione e di quel Club Italia da dove vengono i talenti di oggi e già si stanno formando quelli di domani. Un esempio di organizzazione che dovrebbe aprire gli occhi al calcio e ad altri sport ipovedenti. Con gentilezza, senza strappi, nelle scuole e sui campetti, il movimento ha seguito i mutamenti della società italiana e ha finito per dipingerla plasticamente nel suo aspetto migliore. Basta scorrere volti e nomi di questa nazionale multirazziale ma radicatamente tricolore — Paoletta Egonu da Cittadella e Ofelia Malinov da Bergamo, Miriam Sylla da Palermo e Cristina Chirichella da Napoli — per scoprire che, pur non essendo esattamente un blocco caucasico, anzi proprio per questo, ha la faccia dell’Italia di oggi e ci rappresenta orgogliosamente come popolo.
Al cospetto di tanta bellezza, la trappola da evitare è l’esagerazione. L’invitante tentazione di utilizzare la loro foto di gruppo alla stregua di un manifesto politico buttandola nell’agone come un’arma contro il sovranismo. Si leggono articoli bizzarri a questo proposito come se tante facce di colori diversi non fossero la normalità nello sport, il più potente strumento di coesione sociale di cui disponiamo. Non credo che la Egonu picchi forte sulla palla pensando alla zucca di Salvini, né che esulti avendo in mente la lotta contro il razzismo (anche se la causa non le è indifferente). Italvolley in rosa è un fatto, non un simbolo. Ciò che deve stupirci di queste ragazze — e magari ispirarci nella vita come in politica – sono la straordinaria coordinazione, dedizione e competenza; la fusione identitaria di storie di vita e provenienze diverse; la capacità di stare insieme, di soffrire e gioire, come una squadra. Il resto è cattiva retorica. Comunque vadano le cose, Egonu e le sue sorelle vanno ringraziate oltre che celebrate. E se poi quella manona…