IL DIFENSORE DEL CAGLIARI SI CONFESSA A POCHI GIORNI DALLA JUVE: «SQUALIFICATO MA ERO INNOCENTE E LA WADA L’HA CAPITO»
a lui, ma sono grato anche a Lucescu e al suo vice Nicolini che mi hanno trasformato in un terzino. Sono grato a Guardiola che ha avuto un problema con il doping simile al mio e mi ha spinto a lottare. Mi diceva “Fallo per il tuo nome, per i tuoi figli. Nel calcio non esiste il doping, esistono gli errori”. Mi ha aiutato molto, come Boban, Stanic, Modric, tanti altri giocatori ed ex giocatori che mi sono stati vicini. E Mario Mandzukic, logicamente. Un campione e un grande amico».
Vi sentite spesso?
«Sì. Mi ha detto che sabato vuole giocare a sinistra e io gli ho detto: “Peggio per te, non ti farò toccare palla”. C’è grande amicizia fra di noi, anche con Luka. Loro chiamano, i miei figli rispondono al telefono e si mettono a parlare. Ho giocato nella Croazia 15 anni, ho visto passare tanta gente. Li ho visti arrivare giovani e poi me ne sono andato dopo Euro 2016. Avevo perso mio padre, non era un bel momento. Ma con la nazionale mi sono preso tante soddisfazioni e ho salutato quando era giusto farlo».
E Manduzkic ha fatto bene?
«Ha raggiunto il massimo, che cosa potrebbe ottenere più di una finale mondiale? Lascia al top e si dedica alla sua carriera nel club più forte. Credo che la Juventus abbia il passo per vincere la Champions, e di certo il campionato. Non c’è solo Ronaldo, ma tanti altri giocatori chiave: Chiellini è il numero uno in Italia».
E’ difficile giocare contro gli amici?
«Siamo professionisti. E poi lo faccio da tutta la vita».
Perché ha scelto il Cagliari dopo tanti anni di Champions?
«Gliel’ho detto, è l’unico club che mi ha veramente voluto».
E Inter, Barcellona, Chelsea?
«Ma poi uno deve andare dove gli dicono il cuore e la testa. Prima di decidere ho preso informazioni. Giovanni e Giacomo Branchini, che non sono i miei agenti, ma amici, mi hanno parlato dell’ambiente, poi mi ha chiamato Pavoletti, che mi piace molto. Ama scherzare, come me, ed è un grande attaccante: non mi permetto di entrare nel mestiere di Mancini, ma meriterebbe una chance in Nazionale. Vi manca il bomber? Eccolo. E Barella in un paio d’anni diventerà il leader degli azzurri».
Lei cosa vede nel suo futuro?
«Un po’ di pace. Sa, ho provato a trovare il lato buono anche nella squalifica. Non avevo mai fatto vere vacanze e ho potuto riposarmi. La mia vita è stata piuttosto stressante. Ma poi mi guardo indietro e penso: in Croazia sono venuti a confiscarci la macchine, ora ne ho due e un’altra bella casa, quindi ho vinto la mia guerra. Sono un lottatore, mia moglie pure. E’ più ambiziosa di me e per mia figlia ha voluto una scuola a Londra, quindi ora fanno la spola fra Sardegna e Inghilterra».
Come si definirebbe a 36 anni?
«Come quello che era da ragazzo, come era suo padre: uno che combatte. Non mollo mai e senza l’insegnamento di mio padre non sarei quello che sono. Quando venivano a cercarmi gli osservatori diceva: mio figlio non si compra con i soldi. Mi sono trasferito all’Hajduk perché Stimac, un amico di famiglia, lo ha convinto. All’inizio è stato difficile, però come avrà capito nella mia vita non c’è stato niente di semplice. E ora mi trovo in quest’isola piena di luce, con un pubblico splendido. Negli ultimi anni passati in esilio lo Shakhtar giocava nel deserto: quando entro i campo e vedo lo stadio pieno mi si allarga il cuore. Mi sembra di tornare indietro di dieci anni».