FIGURA DA RICORDARE Bersagliere Oriani Eroe in bicicletta Al Giro e al fronte
1Un campione del ciclismo che perse la vita nella ritirata per mettere in salvo un soldato
È
un corteo infinito, tanto lungo da perdersi sulla linea dell’orizzonte. Non si capisce dove comincia e dove finisce: è una massa che avanza con le poche forze che ancora le rimangono e cerca un posto sicuro, una scodella di brodo caldo, un fienile dove buttarsi a riposare per qualche ora. I soldati del Regio Esercito Italiano hanno volti stravolti dalla fatica, dalla fame e dalla paura. Si stanno ritirando, a Caporetto è stato un massacro: i tedeschi e gli austriaci li incalzano, guadagnano posizioni, minacciano di arrivare fino a Venezia. Fanti, alpini, bersaglieri, dopo più di due anni di guerra, sono distrutti: molti scappano, si ribellano, disertano, e quando li riprendono finiscono davanti al plotone di esecuzione. È il tempo più buio, fa un freddo cane in questo maledetto autunno del 1917 e non c’è un filo di speranza, non si vede una luce che indichi la strada.
IL SALVATAGGIO Il ciclista-bersagliere Carlo Oriani, classe 1888, vincitore del Giro d’Italia del 1913, è uno dei tanti in questa immensa ritirata verso il Piave. Pedala lentamente sulla sua bicicletta in mezzo agli altri militari, lo sorpassano i carri, qualche camion, le motorette che hanno il compito di fare da apripista. A un certo punto, davanti a lui un soldato inciampa. Un sasso, forse. O una roccia che spunta dal terreno. Il soldato cade e fa un volo pazzesco giù dalla scarpata. Lì sotto scorrono le acque del fiume: limacciose, infide. È il Tagliamento che sembra ruggire e in men che non si dica inghiotte il povero soldato. Oriani lo vede scomparire e poi riapparire per qualche secondo, sente le urla strozzate e allora non ci pensa un attimo: lascia la bicicletta e si tuffa per salvare il compagno. Dopo uno sforzo tremendo che dura diversi minuti riesce a riportarlo a riva, bianco come un cencio. Lo asciuga come può, si accorge che sta male, se lo carica sulle spalle e prosegue il cammino sperando di incontrare presto un casolare dove fermarsi. Ci arrivano a notte fonda, chiedono ospitalità, si nascondono nel fienile e per tre giorni ci restano. Quando viene il momento di andarsene, però, Oriani si accorge che scotta come il fuoco, il corpo trema tutto: febbre altissima. Si alza ugualmente e parte in cerca del suo reggimento, il Terzo Artiglieria da Campagna. Ma non ha più forze, è a digiuno, barcolla. Lo trova un gruppo di soldati che lo porta all’ospedale più vicino. La diagnosi è terribile: broncopolmonite. Poche speranze, non esistono gli antibiotici. D’accordo con il comandante del reggimento, i medici decidono di trasferirlo al sud. A Caserta, precisamente: un po’ di aria sana, in assenza di altro, è l’unica medicina.
IL CALVARIO Il ciclista-bersagliere è uno straccio, durante il viaggio delira. Avvertono la moglie Angela Maria che sale su un treno a Milano, ma a quei tempi i viaggi durano giorni. Oriani non è in sé, la febbre non accenna a scendere e chissà a che cosa pensa, mentre apre la bocca e sembra voler parlare, dire qualcosa, ma non riesce a pronunciare niente di sensato. I medici lo assistono fino all’ultimo, ma il 3 dicembre 1917 il ciclistabersagliere si arrende. È un lunedì e la moglie è appena arrivata a Caserta. Fa in tempo a dare una carezza al suo Carlo, a regalargli un sorriso e a dirgli addio. Com’era bello quando correva in bicicletta per le strade della Brianza e nessuno andava più veloce di lui!
I RICORDI Figlio di contadini, nato a Balsamo, che non era ancora unita a Cinisello, Oriani aveva per la bicicletta un amore viscerale. La mattina si alzava presto per allenarsi su per la salita verso Sirtori o addirittura fino al Ghisallo, e poi scendeva dalla sella, prendeva la cazzuola e per dieci-dodici ore era un muratore modello. Lavorò anche alla Breda di Sesto San Giovanni e nel 1909 s’iscrisse alla prima edizione del Giro d’Italia: casacca numero 68. Giunse quinto nella classifica generale e la Gazzetta dello Sport gli dedicò queste parole: «Oriani come classe è da paragonarsi ai primissimi. Il suo stile di corridore di resistenza è forse il migliore». Una vera e propria investitura, che il ciclista-bersagliere onorò vincendo il Giro di Lombardia nel 1912 e il Giro d’Italia nel 1913. Curiosamente in quell’edizione Oriani non trionfò in nessuna tappa, ma fu l’abile capitano di una squadra, la Maino, nella quale esordiva il giovane Costante Girardengo. Furono proprio il futuro Campionissimo e il gregario Bordin a trascinare Oriani fino a Milano. E al termine della cerimonia di premiazione, incassati i soldi destinati al vincitore, tutti a mangiare all’osteria: Oriani era un’ottima forchetta, lo chiamavano «El Pucia» perché amava concludere ogni pasto facendo la scarpetta. Gliel’avevano insegnato i suoi genitori che non si lascia niente nel piatto: è un peccato che i poveri non possono permettersi. Dopo quelle gioie e quei momenti di gloria arriva la chiamata alle armi, l’orrore della battaglia, le pallottole che sibilano e le granate che scoppiano, gli amici che muoiono di fianco a te e tu non puoi farci nulla. E poi le acque gelide del Tagliamento, la febbre, il delirio, la paura... Se oggi si celebra la vittoria nella Grande Guerra è soprattutto perché, a combatterla, ci sono stati uomini come lui, Carlo Oriani il ciclista-bersagliere. MAGLIA ROSA E MILITARE
Carlo Oriani in tenuta da bersagliere. Vincitore del Giro d’Italia 1913 divenne leader della classifica generale nella 8ª e penultima frazione
LA CHIAVE Carlo, classe 1888, si tuffò nel fiume per recuperare il compagno caduto Morì in seguito di broncopolmonite