La Gazzetta dello Sport

FIGURA DA RICORDARE Bersaglier­e Oriani Eroe in bicicletta Al Giro e al fronte

1Un campione del ciclismo che perse la vita nella ritirata per mettere in salvo un soldato

- Andrea Schianchi

È

un corteo infinito, tanto lungo da perdersi sulla linea dell’orizzonte. Non si capisce dove comincia e dove finisce: è una massa che avanza con le poche forze che ancora le rimangono e cerca un posto sicuro, una scodella di brodo caldo, un fienile dove buttarsi a riposare per qualche ora. I soldati del Regio Esercito Italiano hanno volti stravolti dalla fatica, dalla fame e dalla paura. Si stanno ritirando, a Caporetto è stato un massacro: i tedeschi e gli austriaci li incalzano, guadagnano posizioni, minacciano di arrivare fino a Venezia. Fanti, alpini, bersaglier­i, dopo più di due anni di guerra, sono distrutti: molti scappano, si ribellano, disertano, e quando li riprendono finiscono davanti al plotone di esecuzione. È il tempo più buio, fa un freddo cane in questo maledetto autunno del 1917 e non c’è un filo di speranza, non si vede una luce che indichi la strada.

IL SALVATAGGI­O Il ciclista-bersaglier­e Carlo Oriani, classe 1888, vincitore del Giro d’Italia del 1913, è uno dei tanti in questa immensa ritirata verso il Piave. Pedala lentamente sulla sua bicicletta in mezzo agli altri militari, lo sorpassano i carri, qualche camion, le motorette che hanno il compito di fare da apripista. A un certo punto, davanti a lui un soldato inciampa. Un sasso, forse. O una roccia che spunta dal terreno. Il soldato cade e fa un volo pazzesco giù dalla scarpata. Lì sotto scorrono le acque del fiume: limacciose, infide. È il Tagliament­o che sembra ruggire e in men che non si dica inghiotte il povero soldato. Oriani lo vede scomparire e poi riapparire per qualche secondo, sente le urla strozzate e allora non ci pensa un attimo: lascia la bicicletta e si tuffa per salvare il compagno. Dopo uno sforzo tremendo che dura diversi minuti riesce a riportarlo a riva, bianco come un cencio. Lo asciuga come può, si accorge che sta male, se lo carica sulle spalle e prosegue il cammino sperando di incontrare presto un casolare dove fermarsi. Ci arrivano a notte fonda, chiedono ospitalità, si nascondono nel fienile e per tre giorni ci restano. Quando viene il momento di andarsene, però, Oriani si accorge che scotta come il fuoco, il corpo trema tutto: febbre altissima. Si alza ugualmente e parte in cerca del suo reggimento, il Terzo Artiglieri­a da Campagna. Ma non ha più forze, è a digiuno, barcolla. Lo trova un gruppo di soldati che lo porta all’ospedale più vicino. La diagnosi è terribile: broncopolm­onite. Poche speranze, non esistono gli antibiotic­i. D’accordo con il comandante del reggimento, i medici decidono di trasferirl­o al sud. A Caserta, precisamen­te: un po’ di aria sana, in assenza di altro, è l’unica medicina.

IL CALVARIO Il ciclista-bersaglier­e è uno straccio, durante il viaggio delira. Avvertono la moglie Angela Maria che sale su un treno a Milano, ma a quei tempi i viaggi durano giorni. Oriani non è in sé, la febbre non accenna a scendere e chissà a che cosa pensa, mentre apre la bocca e sembra voler parlare, dire qualcosa, ma non riesce a pronunciar­e niente di sensato. I medici lo assistono fino all’ultimo, ma il 3 dicembre 1917 il ciclistabe­rsagliere si arrende. È un lunedì e la moglie è appena arrivata a Caserta. Fa in tempo a dare una carezza al suo Carlo, a regalargli un sorriso e a dirgli addio. Com’era bello quando correva in bicicletta per le strade della Brianza e nessuno andava più veloce di lui!

I RICORDI Figlio di contadini, nato a Balsamo, che non era ancora unita a Cinisello, Oriani aveva per la bicicletta un amore viscerale. La mattina si alzava presto per allenarsi su per la salita verso Sirtori o addirittur­a fino al Ghisallo, e poi scendeva dalla sella, prendeva la cazzuola e per dieci-dodici ore era un muratore modello. Lavorò anche alla Breda di Sesto San Giovanni e nel 1909 s’iscrisse alla prima edizione del Giro d’Italia: casacca numero 68. Giunse quinto nella classifica generale e la Gazzetta dello Sport gli dedicò queste parole: «Oriani come classe è da paragonars­i ai primissimi. Il suo stile di corridore di resistenza è forse il migliore». Una vera e propria investitur­a, che il ciclista-bersaglier­e onorò vincendo il Giro di Lombardia nel 1912 e il Giro d’Italia nel 1913. Curiosamen­te in quell’edizione Oriani non trionfò in nessuna tappa, ma fu l’abile capitano di una squadra, la Maino, nella quale esordiva il giovane Costante Girardengo. Furono proprio il futuro Campioniss­imo e il gregario Bordin a trascinare Oriani fino a Milano. E al termine della cerimonia di premiazion­e, incassati i soldi destinati al vincitore, tutti a mangiare all’osteria: Oriani era un’ottima forchetta, lo chiamavano «El Pucia» perché amava concludere ogni pasto facendo la scarpetta. Gliel’avevano insegnato i suoi genitori che non si lascia niente nel piatto: è un peccato che i poveri non possono permetters­i. Dopo quelle gioie e quei momenti di gloria arriva la chiamata alle armi, l’orrore della battaglia, le pallottole che sibilano e le granate che scoppiano, gli amici che muoiono di fianco a te e tu non puoi farci nulla. E poi le acque gelide del Tagliament­o, la febbre, il delirio, la paura... Se oggi si celebra la vittoria nella Grande Guerra è soprattutt­o perché, a combatterl­a, ci sono stati uomini come lui, Carlo Oriani il ciclista-bersaglier­e. MAGLIA ROSA E MILITARE

Carlo Oriani in tenuta da bersaglier­e. Vincitore del Giro d’Italia 1913 divenne leader della classifica generale nella 8ª e penultima frazione

LA CHIAVE Carlo, classe 1888, si tuffò nel fiume per recuperare il compagno caduto Morì in seguito di broncopolm­onite

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