La Gazzetta dello Sport

PIÙ CORAGGIO, L’ESEMPIO CR7

Un cognome diviso fra due sport: da oggi la sfida mondiale con Carlsen

- Di ARRIGO SACCHI

I l limite maggiore di quasi tutte le squadre italiane consiste nel lavorare più per fermare gli avversari che per dare un’identità al proprio gioco. Forse non si è convinti della validità (...)

C’è chi sale e chi scende dalla Carovana dei Caruana. Strano destino di un cognome, neanche tanto comune, e di due ragazzi italo-americani che esprimono il loro talento in sport diametralm­ente opposti, tennis e scacchi. Mentre Liam, il ventenne tennista, esce di scena dal torneo Next Gen di Milano, c’è Fabiano — che di anni ne ha 26 e a dispetto del nome è il più americano dei due — che arriva a un traguardo inimmagina­bile: la finale mondiale di scacchi. Chissà che cosa avrebbero detto i compagni dell’asilo di Brooklyn se a 5 anni, quando nel doposcuola fu messo davanti a una scacchiera per migliorare la concentraz­ione, avesse previsto quello che il futuro gli stava riservando. Quel genietto occhialuto di origine lucana, nato a Miami e cresciuto agonistica­mente in maglia azzurra, da oggi al 28 novembre sfiderà al College Holborn di Londra il campione mondiale Magnus Carlsen, che in Norvegia è una specie di idolo pop. In palio per il vincitore il 60 % del milione di euro di montepremi, una fortuna anche per uno che degli scacchi ha fatto una profession­e e ci mantiene (agiatament­e) anche la famiglia. Ma attenzione anche a non sottovalut­are il valore mediatico dell’evento. Senza scomodare il genio Bobby Fischer (non per niente idolo di Caruana) e le leggendari­e sfide con il sovietico Boris Spasski, ai tempi della Guerra Fredda, il Mondiale di due anni fa a New York fra Carlsen e Karjakin fece numeri record sul web: 1,5 miliardi di contatti! Pensare che il titolo di re della scacchiera possa andare a un ragazzo che rivendica l’italianità confermata da uno dei due passaporti è già motivo di orgoglio. Ma forse, quando il 12 maggio 2015 «cedemmo» ufficialme­nte Fabiano Caruana agli Stati Uniti, non avevamo valutato che stavamo rinunciand­o a un possibile titolo mondiale.

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