OTTAVIO MISSONI CAMPIONE 2 VOLTE
L’anniversario
Rimbalziamo, in questo 2018, fra ogni tipo di ricorrenze: dal movimento del ’68 alla Grande Guerra, dai Giochi del Messico alle leggi razziali. Temi altisonanti accanto ai quali il 65° anniversario di Casa Missoni, a cinque anni dalla scomparsa del cofondatore Ottavio, può sembrare molto frivolo o minore. Non è proprio così, soprattutto, ma non solo, nella nostra ottica «sportiva». Intanto, il marchio è forse l’unico felicemente riconoscibile a colpo d’occhio quasi ad ogni capo: sempre uguale a se stessa, ma sempre diversa e alla caccia dell’arcobaleno, la moda targata Missoni ha contribuito in modo decisivo al brand Italia in questo importante settore imprenditoriale.
Ma a noi interessa di più la figura di Ottavio, che, dopo Enzo Ferrari, è stato a lungo l’ex sportivo italiano più famoso del mondo. Un campione vero, come dimostrò il suo sesto posto nella finale dei 400 ostacoli all’Olimpiade di Londra ’48, corsa a 27 anni, dopo che la guerra e una prigionia di 4 anni in Africa gli avevano letteralmente rubato una carriera che avrebbe potuto risultare strepitosa: parlano chiaro le prodezze giovanili, a partire dal titolo mondiale studentesco del ’39. Fu proprio a Londra che conobbe la giovane Rosita, con cui ha condiviso tutta la vita e il varo del loro marchio. Un sodalizio granitico, nel quale Ottavio, genio dei colori, sapeva riconoscere in pieno la forza creativa della moglie. Scherzando, ma non poi tanto, si presentava al pubblico americano come “lo sposo di Rosita”. E i loro figli e nipoti, da Angela a Margherita, da Luca a Vittorio (purtroppo prematuramente scomparso in un incidente aereo), costituiscono tutti insieme un messaggio nel messaggio di cui possiamo andare fieri: la forza della famiglia italiana. Quanti hanno avuto il privilegio di conoscere Ottavio da vicino, come chi scrive, ne ricordano soprattutto la travolgente ironia, che sfociava in un umorismo leggero e profondo ad un tempo, fino a farlo sembrare un filosofo della quotidianità. Come quando affermava: «E Dio? Non è come ce lo raccontano. Quanto a noi fatti a sua immagine e somiglianza: o siamo venuti male noi, o lui non è un granché». Lo sport è sempre stato al centro della sua vita: credo che le ultime parole lette poche ore prima di spegnersi fossero sulle pagine della Gazzetta, sua fedele compagna in ogni giornata. Seguiva tutto, si appassionava ad ogni gesto: dal calcio al basket, partendo dalla sua amatissima atletica. E frequentemente invitava nei suoi cenacoli milanesi, o talvolta nelle sue vacanze veneziane o dalmate, personaggi di quel mondo che certamente considerava più suo che non la moda stessa.
Mi lasciò a bocca aperta un giorno telefonandomi per annunciarmi una mail con un allegato della «Gazzetta del Mezzogiorno»: un trafiletto o poco più, in cui si ricordava la sua vittoria in un campionato Master, dove si cimentava ancora alle soglie degli 80 anni in specialità varie, getto del peso compreso. Lui, insignito di due lauree ad honorem, negli Usa e in Inghilterra, portatore di uno dei cognomi italiani più noti del mondo, era molto più fiero di quella piccola segnalazione, che non delle biografie e degli articoli che gli dedicavano le più grandi testate di quattro continenti. Ma nel genuino orgoglio del campione reduce, non mancava come sempre di prendersi in giro: «Prima do un’occhiata ai necrologi del Corriere per capire chi dovrò affrontare…». La sua vita è stata una navigazione avventurosa con tante tappe: la natia Dalmazia, Trieste, Milano, El Alamein, Londra e infine il rifugio di Sumirago, nel varesotto. Ha sempre trovato la rotta giusta annusando il vento, come solo i grandi skipper sanno fare. L’Italia e il nostro sport lo dovrebbero ricordare di più e meglio.