Eccezionale normalità Piccolo è bello: Cittadella guarda alla A
●Strutture, solidità, sostenibilità: così la realtà meno grande della B (20mila abitanti) può realizzare un’impresa
Negli anni Settanta con il Compromesso storico si è cercato di dare un futuro all’Italia. Chissà come staremmo oggi se Dc e Pci si fossero messi d’accordo. Guardando il Cittadella un’idea potremmo farcela, e coltivare rimpianti. Perché la società-modello della B è nata così, negli stessi anni. Era il 1973 e si sono unite la Cittadellese, squadra del popolo, e l’Olimpia, squadra dell’oratorio. Comunisti e cattolici, sotto la guida di Angelo Gabrielli, che mentre costruiva l’impero imprenditoriale dava vita a una realtà calcistica che sarebbe diventata d’esempio, nella sua straordinaria normalità. Il Cittadella, appunto, la realtà più piccola (20mila abitanti) dell’attuale B.
QUADRILATERO La città conta poco più di 20mila abitanti ed è al centro del quadrilatero tra Vicenza, Padova, Treviso e Bassano. Qui è nata Paola Egonu, qui lo sport è di casa e le strutture non mancano. Le mura ellittiche che racchiudono il centro hanno quattro porte con i nomi delle stesse località. Alle quali guarda il Cittadella per espandersi. A fatica. Verso Padova c’è la squadra del capoluogo e guai a chi la tocca, verso Vicenza la rinascita con Renzo Rosso sta risvegliando antichi entusiasmi, verso Bassano c’è scoramento dopo il doloroso addio del re dei jeans. Rimane Treviso, dove il calcio è ai minimi termini e qualche focolaio d’interesse s’è acceso. «Attorno a noi — spiega il presidente Andrea Gabrielli, figlio di Angelo — c’è un bacino di 50mila abitanti. Le nostre aziende sono anche nel Trevigiano, raccogliamo consensi». Solo quello manca al Cittadella: il pubblico. Il resto è perfetto. Strutture, organizzazione, solidità, settore giovanile (16 squadre, più 5 femminili), ambiente sano. «Cose normali, che dovrebbero essere alla base di ogni società — spiega Gabrielli — e che portiamo avanti nel nostro processo di crescita». Nel 1989 il salto nei professionisti, in B sono stati raggiunti due sesti posti e due semifinali playoff. La A viene sussurrata, più sottolineata nei piccoli bar sotto i portici del centro. Ma è lì davanti, pronta a materializzarsi. Lo spazio per adeguare lo stadio c’è, le possibilità pure. Il Cittadella è pronto.
DIRETTORE Piano piano, protestando solo per qualche evidente torto arbitrale. Cose che capitano. Il d.g. Stefano Marchetti li riguarda nei video, smoccola e poi gli brillano gli occhi quando vede la squadra allenarsi. Ex attaccante, abita a due passi ed è qui da quasi vent’anni. Tutto passa da lui, vede mille partite ma va a Campodarsego, non a San Siro. «Il calcio è fatto di cose normali ma difficili da realizzare — spiega — noi ce la facciamo grazie agli uomini: prima che calciatori, allenatori, impiegati, guardiamo le persone». Gabrielli allarga il discorso: «Anche in azienda guardiamo prima di tutto alle persone. Servono competenze, continuità per potersi esprimere e rimediare a eventuali errori; i nostri dirigenti vivono l’azienda come se fosse loro, con intraprendenza e capacità di vedere cose che altri non vedono. Anche Marchetti è così. E poi le gerarchie: se non ci sono io, c’è lui. Siamo poche persone con una forte condivisione».
LA LINEA Ma la continuità è alla base di tutto. Dopo Angelo Gabrielli, scomparso una decina d’anni fa, sono stati presidenti i due figli maschi: prima Piergiorgio, dal 2009 Andrea. E in 45 anni ci sono stati solo 12 allenatori, due esoneri (Tonello nel 1986-87 e Albanese nel 1995-96) e la pagina record di Foscarini: 10 anni. Gabrielli spiega: «Quella dell’allenatore è la scelta più delicata, perché non si torna indietro. Non si risolvono i problemi spendendo o facendo ribaltoni, ma sapendo soffrire». Anche la squadra cammina su questa strada. Marchetti sceglie i giocatori attraverso video e segnalazioni, li va a vedere e non si basa sul rendimento dell’ultima stagione: «Se uno è forte, è forte. Se vediamo le qualità giuste e i valori umani che piacciono a noi lo prendiamo. Certo, alle nostre condizioni, perché non possiamo fare follie. Io non ho un budget, seguo solo la linea societaria». Che è nel rispetto delle regole: un monte ingaggi di 2,6 milioni (3 con i premi), stipendi sotto gli 80mila euro netti. «Per assurdo, preferiamo prendere un Tonali a un Cristiano Ronaldo».
NUMERI Non che le possibilità manchino, anzi. Il Cittadella in estate ha fatto due cessioni monstre: Kouame al Genoa per 5 milioni più bonus e una percentuale sulla futura rivendita, Varnier all’Atalanta per 5 milioni più bonus. Denari che non hanno alterato la linea del club, ma utili per i lavori allo stadio, quelli già fatti e magari quelli futuri. E senza le cessioni, c’è la proprietà. La holding della famiglia Gabrielli (9 aziende) ha 1.300 dipendenti e un fatturato di 800 milioni. E altre aziende del territorio contribuiscono per oltre 500mila euro di sponsorizzazioni. «Anche il Cittadella è un’azienda — dice il presidente — ma sapendo che è uno spettacolo, con emozioni che nella realtà industriale non esistono». C’è anche l’italianità alla base di tutto, in azienda e nella squadra. «Troppo complicato cercare stranieri — commenta Marchetti — a meno che non siano già in Italia, come Kouame: un vero tesoro di ragazzo». Il direttore guarda il campo d’allenamento: «Vede quei pali? Sono le forche: attacchiamo i palloni con una corda e i giocatori stanno lì ad allenarsi. Oppure calciando contro il muro, destro e sinistro, come una volta». Se mai un giorno sarà Serie A, sarà per questi dettagli. «Per noi essere in B è come fare la Champions» fa il timido Gabrielli, juventino tiepido. Allo Stadium non è mai andato. «Magari con il Cittadella...».
IL MIRACOLO
Nel 1973 la famiglia Gabrielli fondò il club unendo cattolici e comunisti. In 45 anni solo 12 tecnici e stesso d.g. dal 2002