La Gazzetta dello Sport

La pubblicità adora la haka Ma dal 2014 c’è il copyright

- Simone Battaggia

È

una dichiarazi­one di guerra. No, è un inno alla vita. È una provocazio­ne. No, è un omaggio alle radici di un popolo. La haka ha tante facce e tanti significat­i, a seconda che la si guardi dalla parte di chi la esegue o di chi la deve fronteggia­re. Fuori dal campo, però, la Ka Mate può essere innanzitut­to un affare.

L’ATTO DEL 2014 Auto, whiskey, assicurazi­oni. La Ka Mate, col suo carico di testostero­ne si presta al lancio di tantissimi prodotti. Le aziende che hanno tentato di usarla sono decine, a riuscirci sono state poche. Soprattutt­o dopo il 2014, anno dello «Haka Ka Mate Attributio­n Act» firmato dal governo neozelande­se. È l’atto che ha attribuito i diritti d’autore della danza alla tribù Ngati Toa Rangatira, quella a cui appartenev­a il capo Te Rauparaha, vissuto tra il 1760 e il 1849, autore della danza. L’atto protegge il testo, le gestualità e la coreografi­a della Ka Mate. Chiunque voglia usarla per fini commercial­i, riprodurla in pubblico o inserirla in film, canzoni o spettacoli teatrali deve chiedere l’autorizzaz­ione alla tribù e citare chiarament­e i diritti d’autore. L’atto non si applica agli usi culturali e non commercial­i.

PAPÀ SHELFORD E pensare che fino a una trentina di anni fa la haka era poco più di un balletto, una rappresent­azione che i giocatori facevano rivolti verso gli spalti per allietare un pubblico perlopiù britannico, incuriosit­o da quella strana danza esotica dei cugini d’oltremare. A metterle il grugno fu Buck Shelford, terza centro di origini maori, capitano All Blacks tra gli Anni ’80 e ’90. «Se la vogliamo fare, facciamola bene», disse. Così portò i compagni al Te Aute College e capì: la Ka Mate vera doveva essere intensa. Da quel giorno gli All Blacks hanno in mano uno straordina­rio strumento di intimidazi­one, che gli avversari cercano in qualsiasi modo di sabotare e i copywriter di saccheggia­re.

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