La pubblicità adora la haka Ma dal 2014 c’è il copyright
È
una dichiarazione di guerra. No, è un inno alla vita. È una provocazione. No, è un omaggio alle radici di un popolo. La haka ha tante facce e tanti significati, a seconda che la si guardi dalla parte di chi la esegue o di chi la deve fronteggiare. Fuori dal campo, però, la Ka Mate può essere innanzitutto un affare.
L’ATTO DEL 2014 Auto, whiskey, assicurazioni. La Ka Mate, col suo carico di testosterone si presta al lancio di tantissimi prodotti. Le aziende che hanno tentato di usarla sono decine, a riuscirci sono state poche. Soprattutto dopo il 2014, anno dello «Haka Ka Mate Attribution Act» firmato dal governo neozelandese. È l’atto che ha attribuito i diritti d’autore della danza alla tribù Ngati Toa Rangatira, quella a cui apparteneva il capo Te Rauparaha, vissuto tra il 1760 e il 1849, autore della danza. L’atto protegge il testo, le gestualità e la coreografia della Ka Mate. Chiunque voglia usarla per fini commerciali, riprodurla in pubblico o inserirla in film, canzoni o spettacoli teatrali deve chiedere l’autorizzazione alla tribù e citare chiaramente i diritti d’autore. L’atto non si applica agli usi culturali e non commerciali.
PAPÀ SHELFORD E pensare che fino a una trentina di anni fa la haka era poco più di un balletto, una rappresentazione che i giocatori facevano rivolti verso gli spalti per allietare un pubblico perlopiù britannico, incuriosito da quella strana danza esotica dei cugini d’oltremare. A metterle il grugno fu Buck Shelford, terza centro di origini maori, capitano All Blacks tra gli Anni ’80 e ’90. «Se la vogliamo fare, facciamola bene», disse. Così portò i compagni al Te Aute College e capì: la Ka Mate vera doveva essere intensa. Da quel giorno gli All Blacks hanno in mano uno straordinario strumento di intimidazione, che gli avversari cercano in qualsiasi modo di sabotare e i copywriter di saccheggiare.