«Sei uno di noi solo se... piangi dopo una sconfitta»
●L’ex stella di Treviso spiega il peso di essere un tuttonero «La nostra regola: prima di criticare devi guardarti allo specchio»
Imbattibili, inviolabili, incorruttibili. Gli All Blacks sono i supereroi del rugby mondiale. Vincono quasi sempre, sprigionano un’energia debordante, hanno un codice di comportamento esemplare. Però sono anche uomini, quindi la perfezione non appartiene nemmeno al loro mondo. Quest’anno sono stati sconfitti da due nazionali diverse, il Sudafrica il 15 settembre e l’Irlanda sabato scorso. Non accadeva dal 2011. Cosa succede quando gli All Blacks perdono, sbagliano, si comportano male? John Kirwan, monumento del rugby mondiale con un passato da c.t. azzurro, nel libro “Gli All Blacks non piangono” ha raccontato il peso di farne parte.
Kirwan, due sconfitte quest’anno. È grave?
«Quest’anno gli All Blacks puntavano a tenere la Bledisloe Cup contro l’Australia e a confermare il titolo nel Rugby Championship e lo hanno fatto. Il prossimo obiettivo è il Mondiale in Giappone. Per arrivarci, perdere contro l’Irlanda è stato importantissimo».
Perché?
«Gli All Blacks hanno da sempre una regola: prima di criticare devi guardarti allo specchio. Siamo abituati a chiederci “dove ho sbagliato”. Se lo fai, capisci come migliorare. Sono entrato negli All Blacks che ero un bambino e ne sono uscito uomo. Ho avuto alti e bassi, ho vissuto la depressione, ma ho imparato a guardarmi allo specchio».
Come viveva le sconfitte?
«Stavo male fisicamente. Vomitavo».
E lo spogliatoio degli All Blacks come le vive?
«Come un funerale. Credo però che più vai in alto, più devi avere una certa sensibilità. Un allenatore mi disse: “Se devo fare una squadra scelgo chi piange dopo una sconfitta, perché so che i soldi e la fama non lo cambieranno”. Questa sensibilità tra gli All Blacks c’è tanto».
C’è chi questa pressione non l’ha retta. Nel 1972 il pilone Keith Murdoch scelse l’eremitaggio in Australia dopo essere stato cacciato con ignominia per una rissa dopo un test in Galles. Non è più tornato ed è morto quest’anno.
«Nel caso di Murdoch si sbagliò. Il manager della Nazionale e i compagni di squadra non fecero nulla per stargli vicino. Sono amico di due suoi ex compagni di squadra, sono pentiti per come andarono le cose allora. Credo che gli All Blacks abbiano imparato la lezione».
Nel 1987 lei segnò una straordinaria meta coast-to-coast all’Italia. Cosa le è rimasto di quella prima Coppa del Mondo?
«Il senso di responsabilità. Per 100 anni gli All Blacks si erano sentiti campioni del mondo senza che fosse mai stato disputato un Mondiale. L’allenatore ci disse che le Coppe successive avremmo anche potuto perderle, ma quella no».
A cosa potrà puntare domani l’Italia?
«A vincere, a segnar mete. L’idea di gestire il punteggio per non prendere troppi punti non mi piace».
Nel 2002, da c.t. azzurro, contro la Nuova Zelanda fece esordire Bortolami, Parisse e Castrogiovanni. Ci sono talenti del genere all’orizzonte?
IN SPOGLIATOIO ERA UN FUNERALE, IO HO AVUTO LA DEPRESSIONE, JOHN KIRWAN SUL PASSATO DA GIOCATORE
IL LAVORO DA C.T. DELL’ITALIA È PIÙ DURO DI QUELLO DI UN C.T. NORMALE JOHN KIRWAN SUL SUO PASSATO DA C.T.
«Sì, ma non si trovano sempre lungo la strada normale. La via principale oggi è quella delle Accademie, ma secondo me i tecnici devono cercare anche fuori. Hansen può aspettare che gli arrivino i giocatori, in Italia non si può. Quando ero c.t. mi chiamavano gli allenatori dei club: “Vieni, qui abbiamo un fenomeno”. Io andavo e trovavo uno scarso, ma alla terza o alla quarta uscita magari saltava fuori un Dellapè. Il lavoro del c.t. dell’Italia è più difficile di quello di un c.t. normale».