BREXIT, ALLA FINE PIANGERANNO TUTTI
La Brexit non sta solo sconquassando la politica britannica, ma negli ultimi giorni ha spaccato in due il calcio inglese: da una parte la Football Association che cavalca il processo di chiusura del Regno Unito, nella speranza che il nuovo corso offra maggiori possibilità ai calciatori «indigeni»; dall’altra i club della Premier, contrari a qualsiasi forma di restrizione, nella convinzione che «non esistono prove del fatto che quote più forti di quelle esistenti avrebbero un impatto positivo per le squadre nazionali». Sullo sfondo, la posizione più defilata del c.t. Gareth Southgate, persona «open mind», di vedute aperte nella vita, ma favorevole alla proposta della sua federazione di abbassare l’asticella dei giocatori stranieri al limite dei 13. Southgate ragiona con le statistiche alla mano: solo il 30 per centro dei calciatori presenti in Premier è convocabile in nazionale.
Come spesso accade in questi tempi di sovranismi e di mal di pancia nazionalisti, le contrapposizioni si alimentano di interessi di bottega. La FA da tempo sta cercando il grimaldello per limitare l’afflusso dei calciatori stranieri, per tutelare il patrimonio nazionale. Finora l’unica regola che ha regolato il flusso verso il campionato più seguito al mondo è stata quella usata con i giocatori provenienti da Asia, Africa, Americhe ed Europa non comunitaria: la concessione del permesso di lavoro in base alle presenze in nazionale o nei casi in cui il calciatore in oggetto sia in grado di apportare un contributo rilevante all’attività. Se questa norma dovesse essere allargata ai calciatori comunitari, e potrebbe accadere in caso di no deal della Brexit, solo il 65% dei giocatori comunitari attualmente presenti in Premier avrebbe le carte in regola. La Premier difende il suo business e sventola le cifre. «Produciamo 3,65 miliardi di tasse ogni anno. Il campionato è seguito in 189 paesi. Circa 700 mila turisti ogni stagione vengono allo stadio per seguire una partita. Abbiamo una forza lavoro di 1.200 dipendenti». Abbassare il numero degli stranieri significa abbassare il livello dello spettacolo e il rischio concreto è quello di perdere migliaia di appassionati e, quindi, diminuire il volume del business.
Ma esiste un altro pericolo e il discorso si allarga oltre i confini della Manica: le restrizioni avranno ripercussioni negative nel mercato calcistico internazionale. Il listino prezzi della Premier è il più elevato nel mondo: i club, compresi quelli minori, acquistano a mani basse, imponendo la forza della loro ricchezza. Con una hard Brexit, il giro d’affari si restringerà inevitabilmente. E alla fine piangeranno tutti, non solo le squadre inglesi.