La Gazzetta dello Sport

I GOL «INCOMPIUTI» DI JUVE E INTER

Le prodezze inutili di Rumenigge e Platini

- Di ROBERTO BECCANTINI

Dall’arsenale di Juventus e Inter, fiere rivali domani sera allo Stadium, emergono due rose che un arbitro non colse. Gol straordina­ri, gesti sublimi: il primo di Karl-Heinz Rummenigge, il secondo di Michel Platini. Così belli, così compiuti che siamo ancora lì a pensarli, a rimpianger­li. E non tanto o non solo perché mossi dal tifo: perché, sempliceme­nte, furono superbi. E saperli abbandonat­i in archivio, vicini al gol di Ramon Turone che, dopo aver incendiato Juventus-Roma del 10 maggio 1981, continua a dividere generazion­i di reduci, non aiuta a lenire il tormento dell’estasi e l’estasi del tormento, ammesso che possa bastare un gioco di parole per metterci una frase sopra.

L’arbitro era Volker Roth, tedesco di Germania come Rummenigge. Faceva il grossista di acciaio e prodotti sanitari, la carriera l’avrebbe poi portato ai piani alti della Fifa e dell’Uefa. Entra in azione la sera del 24 ottobre 1984, a San Siro, nel corso di Inter-Rangers, sfida valida per l’andata dei sedicesimi di Coppa Uefa. Vincerà l’Inter 3-0, e Kalle segnerà comunque. Di testa, senza il trasporto emotivo che solo l’eccezione agita.

Era ben altro, il gol che avrebbe dovuto decorare il tabellino. Una rovesciata spalle alla porta, su parabola di «Spillo» Altobelli. Le rovesciate sono attimi, per uscire dai quali si sceglie un tempo improbabil­e e lo si trasforma in una fionda che anticipa azione e reazione, in bilico com’è fra coraggio, tecnica e tritolo muscolare. Sono intuizioni. Rummenigge si librò in aria, e in area, scansando gli armadi. Ne uscì una traiettori­a che invase l’incrocio dei pali. Lo stadio esplose, un uomo fischiò. Gioco pericoloso. Era l’arbitro. Era Roth. Folgorato, forse, dalla sindrome di Stendhal, complesso che provoca confusione e, soprattutt­o, allucinazi­oni di fronte alle opere d’arte di abbacinant­e splendore.

Se l’acrobazia di Rummenigge fu scultura, il guizzo di Platini fu pittura. Era l’8 dicembre 1985, la città Tokyo, le squadre Juventus e Argentinos Juniors. In palio, la Coppa Interconti­nentale, quando ancora era riservata, esclusivam­ente, a europei e sudamerica­ni. L’avevano traslocata in Giappone per evitare guerre come il ritorno di Estudiante­s-Milan, nel 1969. L’ordalia sarebbe finita 2-2 e ai rigori avrebbe brindato Madama. Ma non è questo il punto. Il punto è che, al minuto 68, sull’uno pari, Massimo Mauro calibrò un calcio d’angolo, la difesa respinse e Massimo Bonini la ricacciò dentro. Fin qui, nessun elemento su cui costruire un urlo. Ma da qui in poi, tanti. Le Roi domò la palla di petto, la alzò di destro sulla corazza di José Luis Pavoni e batté al volo di sinistro. Tutti in piedi.

L’arbitro, però, era Roth. Sempre lui. E, su dritta di un assistente, pescò un fuorigioco di Aldo Serena, una posizione così marginale e passiva che, oggi, avrebbe provocato a stento uno sbadiglio di moviola. Mancava, al quadro appena dipinto, la cornice. Provvide Michel, con il suo talento coreografi­co: applaudì ironico e si lasciò cadere sull’erba del prato, su un fianco, alla Paolina Borghese.

Tra gli argentini aveva piantato le tende il circo Borghi: Claudio, il giocoliere. Silvio Berlusconi perse la testa, letteralme­nte. Non Arrigo Sacchi: i fatti gli avrebbero dato ragione. Se sono uscito un attimo dal seminato, è per raccontarv­i quello che bolliva all’epoca, e per non infierire sull’uomo che uccise la bellezza. Non lo fece apposta, e con il filtro della Var probabilme­nte non l’avrebbe fatto. Ma lo fece.

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