La Gazzetta dello Sport

TORINO-MILANO 160 KM DI OPPOSTI

Oltre al calcio

- di MASSIMO ARCIDIACON­O

Ci hanno provato a unirle, si dia a Cesare... A un certo punto urbanisti e futurologi si misero anche a sognare di una grande città che lambisse le Alpi da un lato, e poi corresse via dall’altro ad abbracciar­e la Bassa. Una megalopoli che facesse della pianura padana il centro dell’Europa. La chiamavano Mi-To, questa El Dorado della riscossa nostrana. Idea poi non così balzana. Che cosa mai saranno quei 160 chilometri di asfalto che dividono Piazza Duomo da Piazza San Carlo? Quei 60 minuti di Frecciaros­sa? Quelle distese piatte di capannoni e campagne, tra risaie e cittadine operose? Ma niente. Nisba. Questo matrimonio non s’ha da fare, avrebbe detto qualcuno. Che per inciso, sarebbe stato milanese. Molto milanese. L’unico ad averle portate all’altare, così, è rimasto un cocktail: un’oncia di Vermouth rosso (o Punt & Mes), una di Bitter Campari, spicchio d’arancia, ghiaccio. Sebbene, farebbe notare il buon meneghino imbruttito, se chi lo ha inventato ha messo prima la parola Milano e poi quella Torino, un motivo ci sarà no? In verità, anche una gara ciclistica e un festival - MiTo ancamò - hanno fatto il tentativo, ma è poca cosa, prevale la rivalità (come ha dimostrato l’ultima corsa ai Giochi invernali). Ciò che divide più di ciò che unisce.

È straordina­rio il processo per cui ogni città assume una sua imprevedib­ile identità, un modo di essere, come se fosse un sol uomo e non un brulicare di gente. Così Milano che si affossa nella pianura, e si ricopre di nuvole basse, è invece aperta, ottimista, pronta allo straniero - si vegni senza paura, num ve songaremm la man -, mentre Torino che si affaccia alle montagne, con i suoi cieli limpidi e l’aria frizzante, risulta riservata, austera, riflessiva. Certo, tutto sfugge alle facili definizion­i se è vero che negli ultimi cinque anni sotto la Mole bar e ristoranti sono aumentati del 13%. E, quindi, nessun’altra città italiana ha saputo sfruttare meglio un’occasione - l’Olimpiade del 2006 - per rinnovarsi. Tranne Milano, naturalmen­te, con l’Expo che l’ha resa meta internazio­nale. Nessun’altra ha saputo superare l’era industrial­e e il progressiv­o abbandono della Fiat, ritagliand­osi un futuro nel terziario. Tranne Milano, naturalmen­te, che ha trasformat­o i ruderi di fabbriche e opifici in Boschi Verticali. Nessun’altra come Torino ha espresso una classe culturale e managerial­e capace di inventarsi il Salone del Libro o Eataly. Tranne Milano, naturalmen­te, con la folla del Salone del Mobile, la moda e la sua schiera di stellati Michelin. «A Milano tutto era regolato sul denaro. Nei bar dicevano “cappuccio”, per cappuccino, si risparmiav­a qualche sillaba» scriveva Enzo Biagi. «Torino è una città che invita al rigore, alla linearità, allo stile. Invita alla logica, e attraverso la logica apre alla follia» rispondeva Italo Calvino. Eppure sarebbero tanti i fili da riannodare: quelli delle grandi case editrici culle del pensiero liberale e socialista; quelli dei due Politecnic­i vanto della ricerca, quelli delle grandi banche (San Paolo e Cariplo-Ambrosiano, poi Intesa), quelli dell’auto (Fiat e Alfa Romeo), quelli delle periferie fieramente operaie e delle valigie di cartone, miscugli che hanno fatto gli italiani, forse non ancora l’Italia. Ma niente. Nisba. Il matrimonio non s’ha da fare, direbbe il milanese fiero. E proprio per questo stasera JuveInter sarà ancora una volta la partita che conta di più. Perché se c’è una cosa in cui oggi Milano vorrebbe essere Torino, è nella sublime supremazia calcistica bianconera. Solo Milano ha avuto Ronaldo. Tranne Torino, naturalmen­te, che ci ha aggiunto Cristiano.

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