GAZIDIS IL MILAN HA IL SUO MARZIANO
Stadio, giovani, orgoglio: chi è l’uomo che vuol riportare il Diavolo in paradiso
D i marziani travestiti da top player, dacché CR7 è atterrato fra noi, si parla molto nella speranza che un extraterrestre buono ricordate il delizioso Et di Spielberg? - indichi al
calcio italiano la strada per tornare a risplendere come un tempo, stella di prima grandezza nel firmamento del pallone. Bene, buone notizie: l’impressione è che dalle parti di San Siro, senza particolari fanfare, ne sia sbarcato un altro...
Di marziani travestiti da top player, dacché CR7 è atterrato fra noi, si parla molto nella speranza che un extraterrestre buono - ricordate il delizioso Et di Spielberg? - indichi al calcio italiano la strada per tornare a risplendere come un tempo, stella di prima grandezza nel firmamento del pallone. Certo, considerato lo stato dell’arte (Juve esclusa naturalmente), non ne basta uno. Servirebbe un’invasione… Bene, buone notizie: l’impressione è che dalle parti di San Siro, senza particolari fanfare, ne sia sbarcato un altro. Non calpesterà fisicamente l’erba degli stadi, ma è destinato a lasciare il segno, a cambiare il destino del Milan e della nostra amata pelota quanto il divino Ronaldo. Visto da vicino, Ivan - si pronuncia «Aivan» - Gazidis, non ha nulla di terribile. Il nuovo Ad rossonero è liscio e perfetto come un monaco zen vestito Savile Row, elegante nell’eloquio, suadente ma affilato come una lama, appassionato il giusto, controllato sempre. Le mani accompagnano il discorso con grazia come se cullassero l’interlocutore. Un felino senza apparente aggressività. Le movenze di un fuoriclasse. E come tale remunerato dal fondo Elliott, che lo ha convinto ad abbandonare Londra e il suo Arsenal per gettarsi nella nuova avventura.
Per il Diavolo, ha in mente
un progetto sportivo prima di tutto, poi economico e organizzativo, che punta a proiettare nel futuro la società rossonera, squassata dall’esperienza cinese e dalla minaccia Uefa, agganciandola alle dinamiche del calcio globale. Un club capace di sostenersi con l’autofinanziamento, ricco di giovani talenti e di altrettanto giovani appassionati, con uno stadio di proprietà in condivisione con i cugini dell’Inter. Non necessariamente il vecchio e mitico Meazza, e questa è già una novità forte. Piuttosto una nuova casa comune dei tifosi milanesi, un impianto stellare e all’avanguardia da far invidia all’Emirates su cui ha governato per l’ultimo decennio. Un sogno. Ma a occhi ben aperti. Per rassicurare tutti, milanisti e non, sul fatto che l’uomo è capace di raggiungere i traguardi che immagina, conviene ascoltare con attenzione la sua storia, raccontata senza un grammo di enfasi, e capire da dove è partito.
Gazidis nasce nel 1964
a Johannesburg da una famiglia greca trapiantata in Sudafrica, in piena apartheid. Quando vede la luce, suo padre Costa, un medico dal carattere bizzarro e indomabile, amico di Mandela e militante bianco dell’African National Congress, il partito della resistenza nera, è al carcere duro come sovversivo. Per rendere più acuta la tortura, il regime razzista gli fa annunciare da un secondino che il figlio è morto durante il parto. Lo abbraccerà solo tre anni dopo quando viene rilasciato e decide di portare la famiglia in salvo a Manchester. Insomma, Gazidis viene su come un migrante, un esiliato, un rifugiato. Cosa che non dimentica, facendone la pietra angolare del proprio edificio intellettuale.
Il ragazzo coltiva una passione
divorante per il calcio e per il Manchester City. Si diletta anche di fisica e di filosofia, ma soprattutto ha un gran talento legale che affina nelle aule di Oxford. Diventa avvocato e per sei anni ha una brillante carriera tra legge e affari sinché i fondatori della neonata Major League Soccer lo convincono a trasferirsi negli Stati Uniti, dove fa decollare il calcio professionistico, entità sino ad allora sconosciuta, ed estranea, alla mentalità americana. Ci resta per 14 anni fino a diventare Deputy Commissioner, architetto di un successo che ha due fondamenti: un business plan preciso ma progressivamente aggiustato sulla base dell’esperienza e gli stadi di proprietà. Ha raccontato spesso degli albori della MLS, in cui le squadre giocavano nelle immense cattedrali del football americano dove 15 mila spettatori sono solo una stilla di tristezza, e della rivoluzione imposta dai Los Angeles Galaxy, i primi a costruire un proprio, modernissimo impianto. Sono loro a fare bingo. Una lezione che si porta dentro e che sicuramente cercherà di tradurre velocemente in italiano, lingua che ha già cominciato a studiare con risultati piuttosto sorprendenti.
Nel 2008, il callido avvocato
si lascia ammaliare dalla grande sirena: i dirigenti dell’Arsenal lo riportano a Londra e gli affidano le sorti di una squadra di grande blasone che ha il problema opposto. Lo stadio c’è, e che stadio… Ciò che manca è una moderna concezione della struttura societaria. Il club, circonfuso del mito di Wenger, compie un errore assai comune anche da noi: pensa il calcio con un attaccamento venato di nostalgia, come il fenomeno a cui ci siamo appassionati da giovani e che vorremmo sempre replicato senza cambiamenti o sterzate. Ma il mondo del pallone cambia vorticosamente ed è ormai un business globale dove entri con il peso delle tue tradizioni e i tuoi valori, certamente, ma devi muoverti con la velocità e la leggerezza di Messi e di Ronaldo. Un lavoretto di trasformazione non facile, anche perché i Gunners sono, allo stesso tempo, la squadra della Regina Elisabetta II e dello scrittore Nick Hornby, quello di «Febbre a 90°» per intendersi. Due mondi in uno. Gazidis vince la sfida economica facendone il quinto club più potente al mondo. A chi gli ricorda che non ha avuto uguale fortuna nei risultati sportivi risponde che se mai l’Arsenal tornerà a vincere la Premier, o la Champions, lo dovrà ai suoi saldissimi fondamentali economici. E comunque il popolo dei tifosi - nobili e intellettuali compresi - si divertono e in quella casacca rossa e bianca si identificano.
Appartenenza, identità e passione.
Parte tutto da qui il credo di Gazidis. Dalla gente, non dai business plan o dal mercato. Nelle rare interviste usa un’iperbole brutale ed efficace. Dice più o meno così… Guardiamo una partita e vediamo 22 milionari che pigliano a pedate un pezzo di cuoio e tentano di infilarlo in una rete. Se il calcio è questo, chi se ne frega? No, il calcio è emozione, calore, orgoglio di appartenere a una bandiera. Per questo è fondamentale il lavoro della famosa Academy che all’Arsenal porta ogni anno due o tre gio- vani in prima squadra. Uno schema che verrà replicato al Milan, tanto che nella sua prima apparizione milanese si è materializzato al Vismara, il campo dove crescono i nuovi talenti. Per il tifoso, pensa il nuovo Ad, il campione cresciuto in casa è il paladino di una buona causa. La prova che la propria passione è ben spesa e ben ripagata. Per questo non si sogna di mettere in discussione Leonardo, Gattuso e soprattutto Maldini, che vede come la perfetta incarnazione dell’eroe rossonero, della storia e dei valori da cui il Diavolo deve partire per riconquistarsi un posto in paradiso.
Poi, ma solo dopo,
viene la parte pratica. Cioè il bello e il difficile. Il progetto di Gazidis non si cura troppo, almeno per ora, delle scadenze temporali. L’importante è il metodo. Declinato in quattro semplici parole d’ordine:
1) Football First: non c’è altra stella polare che il calcio e i risultati sportivi.
2) Stadio di proprietà: come si è detto in coabitazione con i nerazzurri perché il peso dell’investimento è ripartito tra le due società e aumenta il ritorno per gli sponsor.
3) Crescita internazionale sul piano commerciale e dei servizi: investimenti sul marketing, il rapporto con i fans, il digitale e il merchandising sfruttando appieno la notorietà del brand Milan in tutto il mondo.
4) Attenzione massima ai rapporti con l’ecosistema calcio: Scaroni si curerà della Lega e della Figc, mentre lui si occuperà in presa diretta del fronte internazionale.
A chi gli fa notare
che nel passato recente il Milan ha perso quattrini a bocca di barile, in media un centinaio di milioni l’anno, e che il financial fair play della Uefa incombe come un cappio, Gazidis risponde rovesciando la logica del discorso con un sorriso sornione: ha sempre lavorato in realtà dove la disciplina di bilancio è la regola, eppure ciò non ha frenato le ambizioni, anzi ha sviluppato efficienza e creatività. Insomma, non dice che tirare la cinghia aguzza l’ingegno e fa bene ai club, ma lo pensa eccome. Vent’anni fa il calcio italiano aveva il mondo nelle sue mani, ma non ha investito su se stesso ed è finito in serie B. Ora, l’intero movimento ha l’occasione per tornare a volare. E il Milan deve diventarne un propulsore, ruolo che non dev’essere lasciato alla sola Juventus.
Dunque, che tipo
di amministratore sarà Gazidis? Che ruolo gli ha ritagliato Elliott? L’azionista è un fondo d’investimento con un’impronta famigliare e un modus operandi particolare: l’impegno nel Milan può essere anche di lungo periodo e senza particolare scadenza. Per questo ha individuato un manager d’esperienza in tutti i settori societari, compreso quello sportivo, e l’ha messo al timone. Lo skipper è indiscutibilmente lui. Ma come in una barca da regata, il suo successo dipende dalla capacità di coordinare, di disegnare un modello di connessione tra le grandi professionalità di cui è composto l’equipaggio. Tenendo conto che il nuovo Milan parte controvento ed è chiamato ad affrontare mari tempestosi.
D’altronde il nostro uomo
ha sempre mostrato una propensione particolare per le sfide. Lo affascina l’idea di abbandonare la sua «comfort zone», la nicchia di successo personale, la strada che conosce, per inventarsi un nuovo percorso, un’avventura in cui giocarsi tutto. Curioso notare come lo stesso concetto di «comfort zone» sia stato utilizzato dall’altro marziano, CR7, proprio sulla Gazzetta, per spiegare il suo addio a Madrid. Qualcosa li accomuna: il gusto del rischio e le idee chiare. Gazidis non ha paura di affermare che il calcio è prima di tutto inclusività e diversità. Non teme la politica e lo stato incerto del Paese in cui è atterrata la sua astronave. In chiusura, tradisco l’impegno solenne a non virgolettare nulla di quanto ho sentito perché penso che ne valga la pena: «Il calcio è bellezza, e la bellezza è una forza potente nel progresso di una società». In bocca al lupo, Ivan, anzi Aivan. «Crepi» risponde lui, in perfetto italiano.
NUOVO STADIO CON L’INTER, INVESTIMENTO SUI GIOVANI, SVILUPPO DEL MARCHIO
NEL MONDO MA SOPRATTUTTO ORGOGLIO E APPARTENENZA.
L’AD VOLUTO DA ELLIOTT HA UN PROGETTO
CHE PUÒ FAR BENE A TUTTO IL NOSTRO CALCIO