La Gazzetta dello Sport

IN FEBBRAIO UN’ALTRA STORIA

L’eredità dell’allenatore appena scomparso

- Di ALESSANDRO DE CALO’

Il destino - questo «impostore», mai come stavolta - ha collocato la scomparsa di Gigi Radice alla vigilia di Milan-Torino e Torino-Juventus. Le sue partite. Erano gli anni Settanta di un altro secolo e di un’altra Italia. Le squadre di Serie A erano sedici, i diritti televisivi un approdo vago, la Coppa dei Campioni una scorciatoi­a di nove partite. Nel 2003, preliminar­i inclusi, sarebbe arrivata allo sproposito di 19: più del doppio.

Il calcio era sempre dei ricchi, ma tra i ricchi e i poveri non c’erano le differenze, abissali, che ci sono oggi. A frontiere chiuse, bisognava ingegnarsi. E studiare. La Milano dei formidabil­i Sessanta aveva esaurito lo slancio propulsivo, la supremazia domestica se l’era ripresa la Juventus che l’Avvocato aveva consegnato a Giampiero Boniperti, le cui idee coincideva­no con la forza della tradizione e la tradizione della forza.

Radice ebbe la visione e la fretta (sì, la fretta: non la pazienza, e nemmeno la prudenza), di riempire un vuoto, di rompere con il catechismo vigente. In Europa, l’Ajax di Rinus Michels e Johan Cruijff aveva ribaltato il calcio. Non più uno per tutti o tutti per uno, ma tutti per tutti.

Da noi si navigava a vista, annusando qua e là, a caccia di pennellate che decorasser­o la modernità della manovra senza rigare l’immanenza del risultato. Corrado Viciani, a Terni e poi a Palermo, aveva supplito alla carenza di tasso tecnico con una ragnatela di passaggi che definimmo «gioco corto», ignari che, un Guardiola dopo, la storia l’avrebbe ribattezza­to «tiki-taka» e affidato a ben altri interpreti.

A Napoli, Luis Vinicio aveva sdoganato una simil-zona che il piede ingrato di José Altafini demolì sul più bello. A Perugia, laboratori­o emerito, Franco D’Attoma, Silvano Ramaccioni e Ilario Castagner forgiarono un collettivo che, nella stagione 197879, non avrebbe mai perso e si sarebbe arreso esclusivam­ente al Milan della stella, il Milan dell’ultimo Gianni Rivera e di Nils Liedholm, il maestro che preparò la classe alle lezioni di Arrigo Sacchi.

C’era la Lazio di Tommaso Maestrelli, una polveriera negli spogliatoi e un’orchestra in campo. E c’era il Lanerossi Vicenza che Gibì Fabbri cucì attorno a Paolo Rossi, quando si scriveva ancora staccato. A Varese, Eugenio Fascetti ed Enrico Arcelli si apprestava­no a rifondare la preparazio­ne atletica.

Ci fu, soprattutt­o, il Toro di Radice, l’allenatore che seppe dare un presente a una società perennemen­te sospesa fra la tragedia del passato e le inquietudi­ni del futuro. Quel pressing di fresco conio, quella scintilla di un’idea che non fosse rigida attesa, al di là del libero arretrato. Che derby, i derby con la Juventus di Carlo Parola e Giovanni Trapattoni, depositari del vecchio testamento.

In quella decade, dal 1971 al 1980, lo scudetto lo vinsero cinque squadre. Nell’ordine: Inter, Juventus, Juventus, Lazio, Juventus, Torino, Juventus, Juventus, Milan, Inter. L’Inter di Eugenio Bersellini, un sergente non meno di ferro di Radice: e se non proprio così innovativo, altrettant­o propositiv­o.

In un’intervista rilasciata a Francesco Manassero de «La Stampa», Paolino Pulici ha dichiarato che Radice anticipò addirittur­a l’eresia sacchiana. Si era tutti figli di Gigi Riva e del tesoro della sua isola, di ItaliaGerm­ania 4-3 e della rivoluzion­e olandese, di opposti che si sfidavano ma si stimavano, di un calcio in cui i «soliti» vincevano, sì, ma non sempre.

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