Eutanasia di una medaglia d’oro
Marieke Vervoort ha scelto di morire: soffriva di una paralisi progressiva
L’ultima volta che spinse quella carrozzina era sulla pista dello stadio Engenhao, a Rio de Janeiro. Erano i Giochi brasiliani. Furono due medaglie. E l’ultima immagine che ha regalato a Instagram, lei in gara sulla carrozzina paralimpica, ha voluto corredarla da parole che non vogliono essere tristi: «Non si possono dimenticare i bei ricordi!». Era una campionessa e amava lo sport: «È quello che mi permette di vivere».
La scelta e lo sport
Ma sapeva che, prima o poi, sarebbe arrivato quel momento. Lì si sarebbe compiuta la sua scelta. Che aveva già fatto, in un giorno di ottobre del 2008, firmando i documenti che le avrebbero permesso di morire assistita quando avrebbe voluto. «Allora non era il momento giusto, ma volevo essere pronta». Ha sempre sostenuto l’eutanasia. Soffriva per una malattia degenerativa che la aveva colpita poco dopo l’adolescenza e l’ha portata a una condizione sempre più invalidante provocandole dolori sempre più forti. Sino a diventare insopportabili, impedendole anche di dormire. Le terapie del dolore non funzionavano. In Belgio l’eutanasia è regolamentata dal 2002, secondo Paese ad averlo fatto dopo l’Olanda. Marieke Vervoort ha scelto di morire a quarant’anni a Diest, luogo delle Fiandre dove viveva. Lo sport era qualcosa di più che semplici gare per lei. Aveva 14 anni quando cominciò a accusare dolori, prima al tallone, poi alle gambe che si paralizzavano: «I medici non capivano cosa mi capitasse». Lo scoprirono solo nel 2000: fortissimi dolori e una paralisi progressiva cominciata dagli arti inferiori e arrivata quasi alle spalle, con perdita della vista e convulsioni che divennero attacchi epilettici, probabilmente dovuta a una malformazione fra la quinta e sesta vertebra cervicale. Iniziò con il basket in carrozzina e il nuoto: «I medici mi dicevano di evitarlo». Ma lei insisteva. Fece vela e passò al triathlon. Nel 2006 divenne campionessa mondiale. L’anno dopo realizzò un sogno: concluse l’Ironman di Kona nelle Hawaii, luogo di culto per chi ama questa disciplina estrema (3.8 km a nuoto nell’oceano, 180 km con l’handbike, una maratona in carrozzina per finire). Ma la paralisi progrediva. Continuò con l’atletica. Obiettivo la Paralimpiade di Londra: furono una medaglia d’oro nei 100 metri (categoria T52) e una d’argento nei 200. A Rio 2016, vinse l’argento nei 400 e il bronzo nei 100. In mezzo, tre titoli mondiali (100, 200 e 400) nel 2015. La sua vista cominciò a peggiorare, attacchi epilettici
Marieke sui ricordi da lasciare e gli istanti prima dell’eutanasia e dolori continui la fecero fermare: «Mi godrò ogni piccolo momento della vita, la famiglia e gli amici. Cosa che non potevo fare prima perché dovevo allenarmi ogni giorno».
Amico cane
Era buddista e il suo cane si chiamava Zenn. Un labrador entrato nella sua vita quando il corpo si fermava. È stato il compagno fedele: «Tutto ciò che mi cade a terra, lo raccoglie. Quando perdo conoscenza, abbaia e arrivano le infermiere. Mi lecca il viso fino a quando non torno indietro. Mi tira fuori le calze, la giacca, apre e chiude le porte. Rimarrà con me per sempre». Non era una ragazza triste: «Voglio che mi ricordino come una persona che sapeva ridere». Stare con lei era divertente. Sorrideva e scherzava. Poco prima dei Giochi di Rio era finita su vari siti e giornali di ogni parte del mondo, che titolarono: «Dopo la Paralimpiade, l’eutanasia». Si riferivano a un’intervista dove aveva rivelato di avere compilato e firmato i documenti necessari per poterla effettuare. Ma allora era una esagerazione. Infatti a Rio lo smentì. Riguardo i tempi, però, non sull’idea, che coltivava da anni: «Non ho più paura della morte. Quella assistita è simile a un’operazione: si va a dormire, ma non ci sveglia. Una cosa pacifica. E io non voglio soffrire quando morirò». Quando invece lesse quei titoli rimase stupita: «Non sapevo se ridere o piangere. Era il 2008 quando ho firmato per l’eutanasia se le mie condizioni fossero peggiorate. Forse, se non avessi firmato quei fogli mi sarei suicidata prima. Ma è il 2016 e ho vinto una medaglia alla Paralimpiade. Ora devo pensare ad altro, ci sono ancora tante cose belle da fare». E le elencò anche: il volo acrobatico e il paracadutismo, volare su un jet F16, aprire un museo, competere in una gara di rally. Cose che in parte è riuscita a fare. Come l’ultimo desiderio di guidare a Zolder una Lamborghini Huracan Evolution. Era una star dell’atletica paralimpica, ma non un essere superumano, come a volte capita di intendere gli atleti paralimpici: «Non sono un toro, se voglio qualcosa ci provo. Non mi arrendo facilmente». Durante la cerimonia di apertura della sua ultima Paralimpiade al Maracanà, lo stadio culto del calcio mondiale, aveva pianto: «Questa volta voglio spingere le braccia fuori dal corpo».
Voglio che mi ricordino come una ragazza che sapeva ridere
Non ho più paura della morte. Si va a dormire, ma non ci sveglia