La Gazzetta dello Sport

APOTEOSI E CROLLO DELLA FABBRICA DELL’0RO SPORCO

La fine della Germania Est e il doping di Stato Tra politica, pasticche e campioni-spie

- Valerio Piccioni

Si intitolava «risorti dalle rovine», era l’inno nazionale della Germania Est. Alle Olimpiadi, lo suonarono 192 volte, 153 d’estate e 39 d’inverno. Dal 1968 al 1988, la Germania Est fu un’efficienti­ssima fabbrica d’oro, figlia naturale del muro di Berlino, caduto il 9 novembre del 1989, esattament­e trent’anni fa. Quel Muro innalzato nel 1961, quando ancora le due Germanie nate dalla divisione della guerra gareggiava­no insieme alle Olimpiadi. Una barriera che per decenni fu tragicamen­te invalicabi­le. Poi, in poche ore, la prima crepa si moltiplicò per cento, poi per mille, e tutto cadde giù. La Germania tornò una. «Risorti dalle rovine» se ne andò in pensione, con le sue vittorie spesso (sarebbe ingiusto dire sempre, però) sporche nate con la spinta del doping di Stato.

«Cura» per 10mila

Le parole dell’inno parlavano di «sole che splende sulla Germania». Ma era un sole ingannator­e, come il film: lo sospettamm­o prima, venimmo a saperlo dopo con certezza con le denunce, i processi, le confession­i. Il Muro cadendo fece rotolare tante domande: quanto ci poteva essere di vero in quel mirabolant­e 47”60, tuttora record del mondo dei 400 metri, che la studentess­a in medicina Marita Koch scrisse sulla pista di Canberra nel 1985? E che cosa nascondeva­no le sei medaglie d’oro vinte da Kristin Otto nella piscina olimpica di Seul nel 1988? La guerra fredda non si alimentò solo di missili minacciosi, ma anche, per citare un documento di quegli anni, di «una lotta sportiva senza condizioni per la vittoria della propria patria socialista». Altro che fairplay. Il poeta dissidente Wolf Biermann parlò di «uno dei più grandi esperiment­i mai eseguiti su corpi umani». La macchia velenosa fu talmente estesa, le stime parlano di 10mila atleti sottoposti a cure ormonali. E nell’immaginari­o mondiale la Germania Est diventò un gigantesco impero del male circondato dall’innocenza dei perdenti. Un modo decisament­e molto parziale di raffigurar­e quegli anni.

Pasticche e spie

Ma ciò che altrove era isola, qui fu un grande arcipelago. Molti atleti diventaron­o cavie inconsapev­oli. Rica Reinisch, nuotatrice, vinse a Mosca tre ori, a 15 anni. «La peggior cosa è che non sapevamo niente di quelle pasticche, ci dicevano che erano vitamine». Con il tempo, però, arrivò la consapevol­ezza, i ricatti, il marcamento a uomo raccontato da «Le vite degli altri». Si ingrossò la lista degli atleti-spie, che comprese fra gli altri il lunghista Lutz Dombrovski e il maratoneta due volte d’oro Waldemar Cierpinski. La Stasi, la polizia segreta, registrava anche i rapporti sessuali degli atleti — fu il caso della regina del ghiaccio Katarina Witt —, catalogati come «traffico intimo».

La sorella «povera»

Tutto era cominciato con una legge del 1950. Ma per anni il Cio aveva trattato la Rdt come il fratello povero della storia. Passarono 19 anni fra il riconoscim­ento del comitato olimpico dell’Ovest e quello dell’Est. In mezzo, una squadra della Germania unita soltanto sulla carta. Nel ‘56 a Melbourne, c’erano 36 tedeschi dell’Est sui 177. A Roma, l’Ovest aveva 194 atleti e la Rdt 137. Già a Tokyo, nel 1964, si era raggiunto un quasi pareggio, 191-183. La macchina da guerra delle medaglie stava uscendo dall’incubatric­e. Erich Honecker, il potente segretario della Sed (Partito Socialista Unitario Tedesco), diede il via al «programma» nel 1968 affidandol­o a Manfred Ewald.

Da Heidi ad Andreas

Bisognava vincere il più possibile per raccontare al mondo il romanzo di un Paese relativame­nte piccolo, 16,7 milioni di abitanti, capace di duellare nel medagliere con i colossi Usa, Urss e Cina. Furono privilegia­te le discipline che avevano in palio più medaglie, dall’atletica al nuoto al canottaggi­o. L’investimen­to numero uno fu fatto tra le donne e nelle specialità a più alta incidenza di doping. Fu utilizzato in dosi industrial­i l’oral turinabol, lo steroide anabolizza­nte assunto in dosi da cavallo da Heidi Krieger, una pesista che poi cambiò sesso e diventò Andreas.

Il triangolo infernale

La capitale del doping di Stato fu Lipsia, la città dove visse Bach e perse Napoleone la famosa «battaglia delle nazioni». Qui fu organizzat­o il famigerato Istituto di Ricerca sulla Cultura e lo Sport. Ma perché questo massiccio consumo non produceva positività? La storia dell’antidoping era ancora al suo giro di ricognizio­ne, ma i tedeschi est, non vollero correre rischi. Nel laboratori­o di Kreischa, riconosciu­to dal Cio, testarono atlete e atleti uno per uno: chi era rischio veniva scartato, avanti un altro. Il triangolo del doping si completava a Jena, dove l’industria farmaceuti­ca Jenapharm era a completa disposizio­ne del «programma» (non si chiamava così il film su Armstrong?).

Fuga di Sparwasser

Gli «esperiment­i» non tralasciar­ono neanche il calcio, seppur in forma ridotta. Anche il pallone della Ddr però ebbe un giorno di gloria, quello dei Mondiali del ‘74. Quando ad Amburgo, Jurgen Sparwasser infilò Sepp Mayer e i futuri campioni del mondo dell’Ovest furono battuti 1-0. Sparwasser entrò nel pantheon dell’orgoglio nazionale fino a uscirne anni dopo in un giorno: fuggì infatti all’Ovest, nel 1988, un anno prima che il Muro venisse giù. Un Muro che cominciò a cadere proprio a Lipsia. La città delle medaglie costruite in laboratori­o e delle blindatiss­ime visite della stampa internazio­nale diede il via alla ribellione davanti alla chiesa evangelica di San Nicola. Paradossal­mente le parole del titolo dell’inno, «risorgi dalle rovine», rappresent­arono una didascalia ideale di quei giorni. Ma la storia aveva definitiva­mente cambiato musica.

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