Van Basten: «La caviglia e quell’ultimo giro a S. Siro»
“Fragile” è il titolo dell’autobiografia di Marco van Basten: il centravanti ripercorre tutte le tappe della storia di calciatore. C’è un prima e un dopo, legato ai problemi alla caviglia che chiuderanno in anticipo la carriera. Si parte dall’infanzia a Utrecht, il passaggio del testimone con Cruijff, il Milan degli Invincibili, il gol più bello del mondo con l’Olanda («con una caviglia sana non avrei mai calciato in quel modo»), l’operazione e il recupero impossibile, le notti a carponi per conquistare il bagno e la battaglia per una normalità dopo essere stato eccezionale. Questa è la parte terza: La caviglia 1992-98. La morte del cigno: 18 agosto 1995.
A
vanzo e in effetti procedo abbastanza sciolto. Avanzo correndo, voglio dire. Certo, a passo lentissimo, eppure… Ho iniziato camminando – dieci, venti, trenta metri –, poi ho accelerato. E adesso mantengo la velocità. È passato un bel po’ di tempo e il percorso non è breve, tutto sommato è solo un giro, ma faticoso. E stranamente non sento alcun dolore. Faccio un passo dopo l’altro, corro come se fossi in trance, quasi in automatico. Per di più in abiti normali, jeans, camicia rosa, giubbotto marrone scamosciato.
Mentre procedo, ogni tanto alzo entrambe le mani. E faccio un applauso. Anche quello è un movimento sciolto, fluido. Ripeto l’applauso un paio di volte, mentre continuo a correre. So che è così che si fa, e così lo voglio fare. Malgrado conosca bene questo posto, mi sento a disagio. Malgrado l’applauso assordante, mi sento solo. Provo una sensazione di vuoto, ma proseguo il mio giro come penso di dover fare. Non ci vorrà molto. In realtà non vorrei affatto essere qui, non è così che dovrebbe essere. Non dovrei correre in abiti civili mentre loro sono lì fermi, a centrocampo. Dovrei essere qui a scattare, soprattutto a segnare reti, ancora per anni. A fare magie sul prato di San Siro. Il mio prato. Non voglio questo, non ancora. Ho così tanto da dare, così tanti gol da mostrare al mondo. Posso vincere ancora così tanto. Questo era solo l’inizio.
Mi sento circondato dal silenzio, malgrado gli ottantamila tifosi e il loro applauso, anche se li sento scandire il mio nome e vedo gli striscioni. Da anni, ormai, ho male alla caviglia, ma oggi il dolore è sparito. Anzi, è sparito ogni dolore. Stordito, anestetizzato, sconfitto, non so come dire. Irreale, come se non fossi qui. Invece corro. E batto le mani. E tutti continuano a cantare, urlare e applaudire. Lo stadio trema. Il mio stadio. D’un tratto lo sento, chiarissimo, prendo coscienza. Sotto gli occhi degli ottantamila, sono testimone del mio addio.
Marco van Basten, il calciatore, non esiste più. State guardando uno che non è più. State applaudendo un fantasma. Corro e batto le mani, ma già non ci sono più. Forse perché tutto è stato organizzato spontaneamente, per questo fatico a rendermene conto, ma è così. Non ho mai voluto credere che questo momento sarebbe davvero arrivato. La mia resa. Dal profondo sale la tristezza. Mi assale. Il coro e l’applauso penetrano attraverso la mia corazza. Voglio piangere, ma non posso scoppiare in lacrime qui, come un bambino. Mi sforzo di restare calmo. Tutto sotto controllo, come voglio essere io, come credo di dover essere. Mi è sempre riuscito quando lo volevo sul serio, e mi riesce anche adesso.
Corro. E batto le mani, ma non mostro niente del dolore che provo. Vedo i miei compagni di squadra, che ancora aspettano a centrocampo, commossi. Ancora più forte è la sensazione di uno stadio colmo di tristezza. Per ciò che è stato. Per me. Per ciò che ero. Le lacrime premono per sgorgare, ma resto impassibile. Smetto di correre e di battere le mani, il giro è finito. Qualcosa è cambiato, qualcosa di fondamentale. Il calcio è la mia vita. Ho perso la mia vita. Oggi sono morto come calciatore. Sono qui, ospite al mio funerale.