“La peste”, il calcio Camus già scrisse tutto
Nell’ultima settimana, La peste di Albert Camus è entrato nella classifica dei dieci libri più venduti in Italia su Amazon, sabato occupava il settimo posto, poi è sceso, e nelle nostre librerie, prima che venissero chiuse dal governo, gli ordini si erano impennati. È un romanzo datato 1947, tanto tempo fa, ma è ritornato di un’attualità straordinaria. Non siamo qui a consigliarvi di leggerlo, se non lo avete mai letto. O meglio: non fatelo se cercate svago dal coronavirus e se siete suggestionabili, è una lettura che può accrescere l’angoscia. Non rileggetelo, se vi sembra di rammentare che la prima volta che l’avevate affrontato, di solito al liceo, terminasse con il lieto fine, con la vittoria della scienza sul male. Non è così.
La chiusura de è gelida: «Rieux (il medico protagonista del racconto, ndr) si ricordava che quell’esultanza era sempre minacciata. Poiché sapeva quel che la folla in festa ignorava e cioè che il bacillo della peste non muore né scompare mai, che può restare per decenni addormentato nei mobili e nella biancheria, che aspetta pazientemente nelle camere da letto, nelle cantine, nelle valigie, nei fazzoletti e nelle
Premio Nobel
carte». Le analogie con l’emergenza coronavirus sono impressionanti, La peste descrive dinamiche identiche: le ironie iniziali, la sottovalutazioni successive, le prime perplessità e paure, il panico e le fughe, i guardianaggi, la reclusione forzata nelle case, il sovraffollamento degli ospedali. È il racconto di un’epidemia a Orano, in
Algeria, una città affacciata sul Mediterraneo, negli anni Quaranta del secolo scorso, quando il Paese africano era una colonia della Francia. Sì, ma perché ne parliamo sulla Gazzetta? Perché il suo autore, Albert Camus, scrittore franco-algerino, nato nel 1913, premio Nobel per la letteratura nel 1957 e morto in un incidente stradale il 4 gennaio 1960, due giorni
dopo la scomparsa di Fausto Coppi, Camus, dicevamo, è stato un portiere di calcio e ha amato il pallone fino al punto di dedicargli un paio di pagine ne La peste stessa, tra la 253 e la 255, nell’edizione Bompiani che abbiamo risfogliato.
Camus introduce il pallone nella sua narrazione quando l’epidemia ha raggiunto i picchi di vittime e lo stadio della città è diventato un campo di isolamento per persone in quarantena. Il dottor Rieux, medico della prima linea contro il morbo, va in visita alla struttura, accompagnato da Gonzales, un calciatore della squadra locale che ha accettato di partecipare alla sorveglianza dell’accampamento: «Gonzales – scrive Camus – provava a rievocare l’odore di unguenti negli spogliatoi, le tribune gremite, le maglie dai colori vivaci sul terreno rossiccio, i limoni o la gassosa all’intervallo. (...) Gonzales tirava calci a ogni sasso che incontrava. Cercava di spedirli nei tombini e quando ci riusciva diceva: “Uno a zero”». Parole d’amore per il calcio, struggenti, in un contesto tragico.
Camus, negli anni giovanili, era stato portiere del Racing Universitaire Algeri, il Rua. Un buon portiere, con Ricardo Zamora, il leggendario numero uno spagnolo soprannominato El Divino, come campione di riferimento. Poi si era ammalato di tubercolosi ed era stato costretto a smettere, ma l’amore per «le foot» era rimasto tale. Una volta a Parigi era diventato tifoso del Racing Club de Paris: «Il calcio del Racing è scientifico, loro perdono scientificamente tutte le partite», disse con ironia alla tv francese durante un match al Parco dei Principi. E in un’intervista del 1959, qualche mese prima di morire, lasciò ai posteri una specie di auto-epitaffio: «Il poco di morale che conosco l’ho appresa sui palcoscenici dei teatri e sui campi di calcio, che rimangono le mie vere università».