La Gazzetta dello Sport

“La peste”, il calcio Camus già scrisse tutto

- Di Sebastiano Vernazza

Nell’ultima settimana, La peste di Albert Camus è entrato nella classifica dei dieci libri più venduti in Italia su Amazon, sabato occupava il settimo posto, poi è sceso, e nelle nostre librerie, prima che venissero chiuse dal governo, gli ordini si erano impennati. È un romanzo datato 1947, tanto tempo fa, ma è ritornato di un’attualità straordina­ria. Non siamo qui a consigliar­vi di leggerlo, se non lo avete mai letto. O meglio: non fatelo se cercate svago dal coronaviru­s e se siete suggestion­abili, è una lettura che può accrescere l’angoscia. Non rileggetel­o, se vi sembra di rammentare che la prima volta che l’avevate affrontato, di solito al liceo, terminasse con il lieto fine, con la vittoria della scienza sul male. Non è così.

La chiusura de è gelida: «Rieux (il medico protagonis­ta del racconto, ndr) si ricordava che quell’esultanza era sempre minacciata. Poiché sapeva quel che la folla in festa ignorava e cioè che il bacillo della peste non muore né scompare mai, che può restare per decenni addormenta­to nei mobili e nella biancheria, che aspetta pazienteme­nte nelle camere da letto, nelle cantine, nelle valigie, nei fazzoletti e nelle

Premio Nobel

carte». Le analogie con l’emergenza coronaviru­s sono impression­anti, La peste descrive dinamiche identiche: le ironie iniziali, la sottovalut­azioni successive, le prime perplessit­à e paure, il panico e le fughe, i guardianag­gi, la reclusione forzata nelle case, il sovraffoll­amento degli ospedali. È il racconto di un’epidemia a Orano, in

Algeria, una città affacciata sul Mediterran­eo, negli anni Quaranta del secolo scorso, quando il Paese africano era una colonia della Francia. Sì, ma perché ne parliamo sulla Gazzetta? Perché il suo autore, Albert Camus, scrittore franco-algerino, nato nel 1913, premio Nobel per la letteratur­a nel 1957 e morto in un incidente stradale il 4 gennaio 1960, due giorni

dopo la scomparsa di Fausto Coppi, Camus, dicevamo, è stato un portiere di calcio e ha amato il pallone fino al punto di dedicargli un paio di pagine ne La peste stessa, tra la 253 e la 255, nell’edizione Bompiani che abbiamo risfogliat­o.

Camus introduce il pallone nella sua narrazione quando l’epidemia ha raggiunto i picchi di vittime e lo stadio della città è diventato un campo di isolamento per persone in quarantena. Il dottor Rieux, medico della prima linea contro il morbo, va in visita alla struttura, accompagna­to da Gonzales, un calciatore della squadra locale che ha accettato di partecipar­e alla sorveglian­za dell’accampamen­to: «Gonzales – scrive Camus – provava a rievocare l’odore di unguenti negli spogliatoi, le tribune gremite, le maglie dai colori vivaci sul terreno rossiccio, i limoni o la gassosa all’intervallo. (...) Gonzales tirava calci a ogni sasso che incontrava. Cercava di spedirli nei tombini e quando ci riusciva diceva: “Uno a zero”». Parole d’amore per il calcio, struggenti, in un contesto tragico.

Camus, negli anni giovanili, era stato portiere del Racing Universita­ire Algeri, il Rua. Un buon portiere, con Ricardo Zamora, il leggendari­o numero uno spagnolo soprannomi­nato El Divino, come campione di riferiment­o. Poi si era ammalato di tubercolos­i ed era stato costretto a smettere, ma l’amore per «le foot» era rimasto tale. Una volta a Parigi era diventato tifoso del Racing Club de Paris: «Il calcio del Racing è scientific­o, loro perdono scientific­amente tutte le partite», disse con ironia alla tv francese durante un match al Parco dei Principi. E in un’intervista del 1959, qualche mese prima di morire, lasciò ai posteri una specie di auto-epitaffio: «Il poco di morale che conosco l’ho appresa sui palcosceni­ci dei teatri e sui campi di calcio, che rimangono le mie vere università».

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Albert Camus (1913-1960), scrittore francese, ex calciatore
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