Anche l’Nba in quarantena Ci si allena uno alla volta
Coronavirus in America sembrava una parola lontana, per molti astratta. Invece è diventata una presenza inquietante: Nba ferma, squadre in isolamento e misure particolari nei comportamenti ci hanno cambiato la vita. Ero preparato, perché il club, già prima che Gobert venisse trovato positivo, ci aveva educato sull’argomento, spiegando i rischi e invitandoci a non cadere nel panico. Affrontare un’epidemia è un capitolo imprevisto per lo staff sanitario della nostra franchigia, che qui gode di ottima considerazione. Abbiamo un bravo dottore, diretto e chiaro con gli atleti. L’ho conosciuto a inizio stagione, alla riunione dove ci sono state date le linee guida in tema di salute. I controlli sono regolari, compresi quelli antidoping, su urine e sangue, che però avvengono a sorpresa. Per esami specialistici o strumentali, ci appoggiamo a una clinica, sponsor del team, come avviene in Italia o in Turchia, e a medici specializzati. A dire il vero, non c’è qualcosa di diverso o speciale rispetto all’Europa. A parte la visita cardiologica: lunghissima. Con un controllo interminabile e una prova da sforzo degna di questo nome. Non voglio dire che siano più accurati rispetto all’Europa, dove ho sperimentato di persona l’alto livello sanitario, ma test di questa durata non ne avevo mai fatti. Con lo stesso scrupolo ora i nostri medici affrontano l’emergenza: allenamenti individuali con tre persone al massimo in palestra, ogni attrezzo dai palloni ai pesi viene disinfettato, l’accesso al campo è limitato a pochi. Ci hanno invitato a non avere contatti con estranei e addirittura suggerito di farci ospitare da compagni che hanno dependance, così da evitare gli altri condomini. Io, purtroppo forte dell’esperienza della mia famiglia e dei miei amici, ho una ricetta ‘italiana’: per quanto pesi a livello mentale, sto in casa.