Forse voleva dire...
3Il Mago mi terrorizzava, ma con Joaquin ho imparato a prenderlo un po’ in giro. Anche fuori dal campo era un mito.
Conte? Mi ha sgridato davanti a tutti. Dopo reagisci o ti butti giù Romelu Lukaku
Ha ragione il presidente federale Gabriele Gravina: «Parlare del taglio degli stipendi dei calciatori, in uno stato d’emergenza che coinvolge tutti, non dev’essere un tabù». Parlarne si può, il problema, molto più complesso, è decidere che cosa fare. La sensazione è che per trovare una soluzione ragionevole bisognerà camminare tenendosi a equa distanza da due burroni: la demagogia e il garantismo cieco che non tenga conto della eccezionalità di una contingenza drammatica. A illuminare la strada, come sempre in questi casi, dovrà essere il buon senso delle parti. Non si risolve la questione demagogicamente, additando i calciatori strapagati, ricchi e viziati e mettendoli a confronto con categorie di lavoratori che hanno perso l’impiego o hanno visto sforbiciata di brutto la loro busta paga. I calciatori sono professionisti, come tutti gli altri, le cui prestazioni sono regolamentate da un contratto di lavoro. Sono pagati per fare un certo tipo di lavoro per un dato periodo di tempo. Non ci piove che se le partite dovessero essere ridotte, e di conseguenza, anche le prestazioni, gli stipendi dovrebbero essere aggiornati al ribasso. Tutti d’accordo. Cambiano i punti di vista nel caso il calendario dovesse essere in qualche modo rispettato fino in fondo. I club chiederebbero ai propri calciatori di partecipare comunque alle gravi perdite di bilancio. L’Associazione Calciatori suggerisce invece di temporeggiare per quantificare quella perdite: porte chiuse? Meno partite? E’ qui che la categoria potrebbe barricarsi dietro a un garantismo ferreo: il rischio d’impresa spetta alla proprietà, infatti il calciatore è un dipendente stipendiato a ingaggio e bonus e non partecipa alla spartizione degli utili. Quindi non deve spartirsi neppure le perdite. E lo stipendio non è vincolato al numero di spettatori. E’ qui che il buon senso dovrebbe suggerire ai calciatori di considerare non solo l’eccezionalità della situazione, ma anche quella del loro mestiere che garantisce privilegi intoccabili. Non tutti possono caricare su un jet privato la famiglia e portarla in salvo, come stanno facendo le stelle d’Europa e come vorrebbe fare la gente normale. E’ per questa peculiarità, certamente meritata con talento e sacrificio, ma assicurata da un modo speciale come quello del calcio, che i calciatori dovrebbero mostrare una disponibilità al confronto che va al di là dell’inchiostro contrattuale. Ogni calciatore è di fatto azionista del proprio club. Se si guasta la giostra, piange il giostraio, ma anche chi cavalca i cavallini. E poi un’apertura di buon senso è atto dovuto verso la gente che soffre e che pena anche economicamente. Che poi è la gente che riempie gli stadi e alimenta gli stipendi dei campioni. L’Italia dei balconi e dei medici in trincea si aspetta dal calcio un gesto di condivisione e di sensibilità, non solo beneficenza. Il presidente del Sion ha licenziato in tronco 8 giocatori. Non è la via. Max Eberl, d.s. del Borussia Moenchengladbach ha rivelato: «I giocatori hanno offerto parte degli ingaggi per venire incontro alle difficoltà del club. Orgogliosi di loro». Questa sembra la via del buon senso. Un sacrificio condiviso, non imposto, e proporzionato alle buste paga dei calciatori. Il calcio ha un’occasione splendida per restare connesso al Paese e guadagnare credibilità.