UN LAMPO NEL BUIO
Mito Owens: sfidò Hitler con 4 ori a Berlino 1936 e anche il razzismo Usa
La grandezza di un uomo, dicevano i saggi antichi, non sta soltanto nel compiere imprese memorabili, ma nel saperne gestire le conseguenze con dignità e coraggio. E allora, preso per buono ciò che affermavano i sapienti del passato e seguito passo dopo passo il suo percorso una volta raggiunta la gloria, si può affermare che Jesse Owens, leggendario eroe dell’atletica scomparso il 31 marzo di quarant’anni fa, appartiene alla schiera dei Grandi. Non solo, appunto, perché ha conquistato quattro medaglie d’oro ai Giochi di Berlino nel 1936, ma perché, dopo, ha saputo difenderle dalle menzogne e dalla retorica.
Il giorno dei giorni
Figlio dell’Alabama, «negro» come allora si chiamavano gli uomini di colore, povero, destinato ad avere dalla vita la miseria che era toccata al padre, e prima ancora al nonno e al bisnonno, James Cleveland Owens si mise a correre e a saltare. Era il suo modo di scappare da un’esistenza segnata e, nello stesso tempo, era la dimostrazione che ognuno di noi, se vuole, può. La sua famiglia si trasferì nell’Ohio, lui fu iscritto alle scuole tecniche e cominciò a frequentare i campi di atletica, nelle pause che gli erano concesse dal padrone del negozio di scarpe presso il quale lavorava. Non era più James
Cleveland, ma semplicemente J.C., pronunciato con quello slang del Sud che presto lo trasformò in Jesse. In un giorno di primavera del 1935 stabilì quattro record del mondo in 45 minuti e, con quella dote, si presentò a Berlino per partecipare all’Olimpiade di Hitler nell’estate dell’anno successivo.
Contro la retorica
Owens gareggiò il 3, il 4, il 5 e il 9 agosto. E vinse sempre. I 100 metri, il salto in lungo, i 200 metri e la staffetta 4x100, gara, quest’ultima, cui non voleva prendere parte per lasciare spazio alle riserve. Fece qualcosa d’incredibile sotto gli occhi del Führer e dei suoi gerarchi che, impettiti nelle loro divise d’ordinanza, erano costretti ad assistere, loro fieri e spietati difensori della razza ariana, allo spettacolo di un atleta di colore che batteva tutti gli altri. E, com’era logico, alla leggenda sportiva si unì la retorica politica, e Owens divenne il simbolo dell’anti-razzismo: i giornalisti americani lo dipinsero come l’atleta che, da solo, aveva battuto il Male. Era vero: Owens, ragazzo «negro» dell’Alabama, povero, figlio di un contadino, aveva raggiunto la gloria e dimostrato che la razza ariana non era superiore. Ma era altrettanto vero che il razzismo non apparteneva soltanto al regime nazista, e lui lo aveva provato sulla propria pelle, nei democratici Stati Uniti d’America. Ecco che cosa non gli stava bene, e lo disse subito appena rientrato in patria: non voleva diventare la bandiera di una nazione, la sua, nella quale la segregazione della gente di colore, e delle minoranze in generale, era ancora largamente diffusa e tollerata (se non sollecitata) dal potere costituito.
Il no di Roosevelt
L’episodio controverso accadde il 4 agosto. Gara del salto in lungo. Owens arrivò in finale e battè il rivale Luz Long, un tedescone con cui, sul campo, aveva scambiato più di qualche chiacchiera, tanto che in seguito si alimentò la leggenda che i due fossero amici. Al momento della premiazione Owens salì sul podio e, scrissero molti giornalisti, Hitler lasciò la tribuna d’onore, sdegnato per un simile affronto. L’immagine era perfetta per colorare la scena, ma non è vera. E fu lo stesso Owens a dichiararlo nella sua autobiografia, scritta nel 1970. «Dopo essere sceso dal podio del vincitore, passai davanti alla tribuna d’onore per rientrare negli spogliatoi. Il Cancelliere tedesco mi fissò, si alzò e mi salutò agitando la mano. Io feci altrettanto, rispondendo al saluto. Penso che giornalisti e
Quarant’anni fa moriva l’eroe di Berlino ‘36: nero, povero, umiliò il nazismo senza mai dimenticare la segregazione patita in America. «Vero, il Führer non mi strinse la mano ma neanche Roosevelt...»
scrittori mostrarono cattivo gusto inventando poi un’ostilità che non ci fu affatto». Rientrato negli Stati Uniti, il presidente Franklin Delano Roosevelt si guardò bene dal ricevere Owens alla Casa Bianca, come era sempre avvenuto per i vincitori delle medaglie olimpiche. E lui, che faceva della verità uno stile di vita e del coraggio un modo di affrontare il destino, di fronte ai taccuini dei cronisti e ai microfoni delle televisioni, non cercò scorciatoie. Disse: «Vero, Hitler non mi ha stretto la mano, ma fino a qui non lo ha fatto neanche il Presidente degli Stati Uniti». Il quale, membro del Partito Democratico, aveva non pochi problemi con la popolazione di colore che dal suo New Deal era rimasta esclusa. E per ribadire il suo no alla politica di Roosevelt, Owens s’iscrisse al Partito Repubblicano.
Dopo la gloria
Sul Corriere della Sera del 5 agosto 1936, nella titolazione della pagina dedicata ai Giochi Olimpici di Berlino, Owens era definito «il sorprendente negro». E, nell’articolo, Emilio De Martino ne fece un breve elogio per l’incredibile salto in lungo dopo che il giorno precedente aveva messo in fila tutti i rivali nella volata dei cento metri. «Owens, il negro-fenomeno che non si accontenta di essere l’uomo più veloce del mondo, ma vuole essere anche quello che salta più lontano. Owens, che coglie una medaglia d’oro al giorno, ha raggiunto i metri 8,06. Secondo è il tedesco Long con metri 7,87; terzo il giapponese Takima con metri 7,74. Per un solo centimetro Maffei (l’italiano più forte, ndr) non ha la gioia di vedere salire sul pennone la sua bandiera».
Poche righe, dunque: nessun cenno al «saluto-non saluto» di Adolf Hitler verso il campione statunitense. Ma le storie false, se ben costruite e ben argomentate, diventano spesso le più vere. Resta il fatto che Jesse Owens, dopo aver raggiunto la gloria ed essersi trasformato in un simbolo mondiale, raccattò qualche soldo gareggiando su questa o quella pista contro cani e cavalli, allenò per un breve periodo gli Harlem Globetrotters e scese pure sul parquet assieme a loro, e poi morì solo e con pochi soldi in banca. Qualche giorno dopo che fu sepolto nel cimitero di Chicago, gli venne dedicato un asteroide: il 6758 Jesseowens. E così il Mito continuerà a guardarci dall’alto per sempre.