LO SPORT INVADE I SOCIAL E SI REGALA UNA NUOVA VITA
Un giorno dopo l’altro l’isolamento forzato si dilata, raggiunge dimensioni ignote a chi prima conduceva una vita normale, scava nei vecchi costumi mentali alla ricerca di sbocchi come il subacqueo cerca spasmodicamente l’ossigeno dopo troppa apnea. I social network sono spesso dipinti come il male del mondo, ma in questi giorni Twitter - o almeno la porzione che frequento io, peraltro non piccola - sta vivendo un piccolo Rinascimento: se si esclude l’ovvio e naturale mischione politico - spesso distante da toni oxfordiani sulla reazione alla pandemia delle varie istituzioni, qui è tutto un fiorire di iniziative, referendum, sondaggi e “catene”, che per quanto declinati in digitale restano i modi più tradizionali per conoscersi e distrarsi. Il tema sportivo è dominante, perché non esiste un linguaggio comune più immediato e perché lo spettacolo dell’agonismo ci manca. Sì, lo spettacolo. Non si vive di solo panem. I circenses ci riempivano l’esistenza, a giudicare dalla frequenza con la quale li evochiamo nei nostri tweet (e dagli altri pianeti social, Facebook in testa, arrivano indicazioni dello stesso segno). Se soltanto ieri fossi salito a bordo di tutte le catene in viaggio con delle scelte “pensate” - nel senso di non scrivere i primi nomi che mi passavano per la testa, ma meditarli il giusto - avrei dovuto dedicare non poco tempo a estrarre dalla memoria i quattro calciatori preferiti di sempre, il quintetto base ideale, le partite di tennis più entusiasmanti della storia e altri argomenti minori, o meglio di nicchia come la ricostruzione della rosa della Triestina ‘82-83 (quell’anno vincemmo il campionato di C1). In questi tempi vuoti piace moltissimo la ricerca del G.O.A.T., il “greatest of all time” che unisce le generazioni, perché la modernità dei ragazzini è piena di candidati (Messi e Ronaldo, LeBron James, Federer, Nadal e Djokovic, Hamilton, Rossi e Marquez), e se tu opponi le ragioni di un passato che ti appartiene devi anche portare le prove. E allora ti cali in quella caverna di Ali Babà chiamata YouTube alla ricerca di una volée di McEnroe, un tiro sulla sirena di Jordan o Kobe, un sorpasso di Gilles, un numero di Maradona. Che poi certi filmati in rete sono come quei fiumi carsici che spariscono non sai dove e dopo un po’ ricompaiono non sai come: ieri è riemerso il favoloso riscaldamento di Diego sulle note di “Life is life” degli Opus (1985!), forse il primo a postarlo è stato Lineker, incredibilmente è saltata fuori un sacco di gente che non l’aveva mai visto. Glielo spiegate voi chi era Maradona? Glielo diciamo che era un tipo un po’ diverso dal folkloristico protagonista della serie di Netflix girata a Sinaloa, la principale piazza di operazioni dei narcos messicani? Uscito dalla porta con l’accompagnamento dei cori di vergogna per non essersi fermato subito - ma la realtà è che è stato più rapido di molti altri aspetti della vita comunitaria - lo sport rientra da tutte le finestre possibili come conseguenza di un auspicato ritorno alla normalità. Di più, sarà il simbolo più gettonato della guarigione dalla pandemia. Premettiamo continuamente che non ci sono certezze, eppure siamo lì a enumerare le date possibili, le sovrapposizioni inevitabili nel 2021, c’è persino chi studia l’adeguamento delle finestre di mercato. È un bisogno insopprimibile di vita in tempi di morte. C’è poco da andarne fieri, ma nemmeno da vergognarsene troppo: giorni così non ne avevamo ancora vissuti, le reazioni connesse erano terra inesplorata. E terribilmente umana.