Camus, Pavese, il Che: un ruolo da intellettuali
Il portiere sta tra i pali e medita, come un intellettuale in un caffè di Parigi. Normale che sia stato ruolo amato da artisti, scrittori e rivoluzionari. Come spiegava Cesare Pavese, portiere da ragazzo, nel racconto giovanile «L’acqua del Po», il ruolo «sviluppa le attitudini meditative. Si vede il mondo arrabattarsi e si fa niente». Albert Camus, Nobel per la letteratura nel ‘57, difendeva i pali della squadra della sua università: Racing Universitaire d’Alger. «Tutto ciò che so della vita, l’ho imparato dal calcio», ha confessato. Per esempio «che la palla non va mai dove te l’aspetti». E che l’uomo fondamentalmente è un portiere: «Dopo di me non c’è più nulla. Sono l’ultimo uomo, ne sono consapevole. nessuno può fare nulla per me». Avrebbe amato il silenzioso Zoff in maglione nero da esistenzialista. Arthur Conan Doyle era portiere del Portsmouth F.C. In formazione figurava come A.C. Smith. Una curiosa presa di distanza dal suo cognome di scrittore. Schizofrenia confermata dal suo famoso Sherlock Holmes che, indagando sulla scomparsa di un giocatore di rugby, confessa sprezzante di non avere simpatia per «questi giochi da bambini» e che «il destino degli uomini gli interessa più di una partita di calcio». Cercava di cavarsela da Lev Yashin, il russo Vladimir Nabokov, padre di «Lolita» e portiere della formazione dell’Università di Cambridge. Si sa che il medico argentino Ernesto Guevara e l’amico Alberto Granado, durante il loro viaggio in motocicletta per il Sud America, si fermarono nella città colombiana di Leticia e si offrirono come allenatori-giocatori. Il Che, anche per ragioni d’asma, si schierò tra i pali e giura di aver consegnato alla storia locale un rigore parato. Con maglia e mansioni diverse dal gruppo, armato di mani in un gioco di piedi, un portiere, per costituzione, è un rivoluzionario.