IL MARATONETA DEL GIORNALISMO CON IL CICLISMO NEL CUORE
Fausto Coppi intervistato da Orio Vergani al Tour de France 1951. Coppi partì per il Tour poco dopo la morte del fratello Serse in seguito a una caduta al Giro del Piemonte. Vinse una tappa e chiuse decimo
Instancabile, imbattibile e versatile, morì nel 1960. Il suo addio a Coppi: «Il grande airone ha chiuso le ali»
Orio Vergani è stato il più forte maratoneta del giornalismo. Instancabile, di una resistenza al di fuori del comune, imbattibile con la penna stilografica. Era capace di scrivere, in un esiguo spazio di tempo, di letteratura e di ciclismo, di cucina e di teatro, di pittura e di cronaca nera, di musica e di Miss Italia. E ogni articolo conteneva gioielli di stile diventati modelli da imitare, anche se tutti, fin da quando se ne andò il 6 aprile 1960, erano ben consapevoli che un altro Orio non ci sarebbe più stato, perché nessuno possedeva la sua potenza espressiva e, allo stesso tempo, la sua velocità.
L’elogio di Buzzati
Valgano, a spiegare il fenomeno, le parole di Dino Buzzati, suo collega al Corriere della Sera: «Scrivere di sana pianta un elzeviro di due colonne nello spazio di un’ora d’orologio? In un’ora è concepibile stendere l’ampia cronaca di un fatto, o una cronaca teatrale, perfino sviluppare un commento di notevoli dimensioni. Perché in questo caso la materia c’è già, ben definita, e si lavora sul sodo. Ma un elzeviro! Un pezzo di letteratura da estrarre completamente dal cervello, dove non si può indulgere alle magagne quasi inevitabili quando si scrive in fretta (ripetizioni di parole, noiose assonanze e consonanze, e peggio rime, sbilanciamenti nel ritmo del periodo, sconnessioni, eccetera). Due colonne d’elzeviro in sessanta minuti primi? Vergani uscì, senza affrettarsi. Io pensai, meschinamente: sì, forse ce la farai, con la tua infernale abilità, ma sarà cosa mediocre, sforzata, stanca, è inevitabile. L’orologio segnava le otto e dodici. Alle nove e un quarto l’elzeviro arrivava in tipografia. Era uno dei più belli, geniali, scorrevoli, patetici che Vergani avesse scritto in vita sua».
La produzione
La facilità di pensiero e di espressione contrastavano con la lieve balbuzie, forse un vezzo dietro al quale si mascherava (e mascherava la propria malinconia) per far apparire un po’ meno di se stesso, lui sempre così pronto nel darsi agli altri anche quando non gliene veniva nulla in cambio. In una giornata di lavoro, era in grado di produrre un articolo per le pagine sportive, un elzeviro, un commento su un protagonista della vita culturale e, la sera, s’infilava l’abito bello e si fiondava a teatro per raccontare una «prima». Interpretava il mestiere di giornalista con lo spirito di un atleta, e non è un caso che proprio gli atleti fossero i tipi umani ai quali prestava la maggiore
Vergani alla partenza del Giro di Lombardia 1936 con Gino Bartali. Quando si ritirò scrisse: «Sembrerà strano, alla mia vecchia stilografica, dopo 1200 articoli dei quali, più o meno, sei stato il protagonista, di non scrivere più il tuo nome» attenzione. Ne scandagliava gli umori, ne ascoltava le confessioni, cercava la verità nelle pieghe dei loro volti e considerava il gesto agonistico, la grande impresa, come una naturale conseguenza dei loro caratteri. Il ciclismo, il Giro d’Italia e il Tour de France erano il suo Eden: girando in lungo e in largo, su e giù per le Alpi, gli Appennini e i Pirenei, sotto il sole giaguaro o improvvisi temporali che gelavano le ossa, scopriva il vero volto dei campioni. Nelle cronache riportava con precisione i dati della corsa, i distacchi, le classifiche, ma ciò che gl’interessava comunicare ai lettori erano le impressioni, le cose che i suoi occhi avevano visto, alla maniera di Ugo Ojetti. Poteva essere la descrizione di una fattoria o di una bettola di campagna, la faccia stravolta del ciclista che aveva perso o il sorriso impacciato di un vincitore inatteso. Quelle di Vergani, anche quando scriveva di ciclismo, erano rappresentazioni teatrali. Alternava i personaggi sul palcoscenico con la maestria di un Pirandello: il teatro era dentro di lui, lo viveva attraverso la sorella Vera, attrice di successo, e attraverso le opere che lui stesso scriveva, tra un reportage e un elzeviro, accompagnato dai soliti (troppi) caffè e dalle solite (troppe) sigarette.
L’Airone
Alla sua fantasia, in questo caso unita al dolore, si deve uno degli incipit più belli della storia del giornalismo: quello sulla morte di Fausto Coppi. Scrisse: «Il grande airone ha chiuso le ali. Quante volte Fausto Coppi evocò in noi l’immagine di un airone lanciato in volo con il battere delle lunghe ali a sfiorare valli e monti, spiagge e nevai? Fortissimo e fragile al tempo stesso...». Quando Gino Bartali vinse il Tour del 1948, dopo l’attentato a Togliatti e le rivolte di piazza, Vergani ricordò che il campione gli aveva regalato il berretto: «Sia ringraziato qui Bartali perché, con quel berretto sudicio in testa che adesso è accanto al mio calamaio, ha fatto vestire la Francia, ovunque c’era un italiano, di tricolore, con il bianco della lealtà, il rosso del coraggio e il verde del lavoro». Per descrivere il tramonto della carriera di Costante Girardengo utilizzò poche parole: «Ha corso. Non ha fatto altro. Cioè, ha fatto qualche altra cosa: ha vinto». E quando «disegnò» Alfredo Binda, altro eroe dei suoi tempi, si concentrò su un particolare: «La faccia di Binda non fa spettacolo. Non è mai stato né il monello, né l’attore giovane, né il fotogenico, né il massacratore, né l’uragano, né la trebbiatrice. È stato sempre, solamente, Alfredo Binda: uno della folla». Lampi di pura letteratura, regalati al lettore con la generosità che era, probabilmente, il tratto umano più significativo di questo imbattibile maratoneta della scrittura.
TEMPO DI LETTURA 4’56”