La Gazzetta dello Sport

Thompson sempre in corsia «Ora la sfida è in ospedale»

La statuniten­se più medagliata fa l’anestesist­a a Charleston: «Quanti aiuti dal nuoto»

- di Stefano Arcobelli

Jenny Thompson e una vita in corsia: prima in acqua ora in ospedale. La grande statuniten­se, velocista e delfinista vincitrice di 8 ori olimpici, si ritirò come meglio non avrebbe potuto: ricevendo il camice bianco da medico, in una cerimonia solenne durante i Mondiali di Indianapol­is del 2004, proprio dopo le sue ultime conquiste ai Giochi di Atene. Fu il regalo più bello nel momento del passaggio a un’altra carriera: quella di anestesist­a. Quando era una matricola della facoltà di medicina alla Columbus University di New York, visse in diretta l’11 settembre 2001 il crollo delle Torri Gemelle. Ora è al centro di un’altra emergenza, quella del coronaviru­s. E le compagne del nuoto le stanno venendo in soccorso.

Aspettando il picco

Jenny, nata 47 anni fa a Danvers, nel Massachuse­tts, ora lavora a Charleston in South Carolina. Aveva confessato ad alcune ex compagne che il suo ospedale non aveva abbastanza attrezzatu­re in vista dei picchi di epidemia previsti per fine mese. Ma non aveva chiesto aiuto. Gabrielle Rose e Lea

Maurer si sono però rese disponibil­i lanciando la campagna «Go Jenny Go». E, grazie alla raccolta fondi arrivata a 9 mila dollari nella scorsa settimana, le attrezzatu­re sanitarie di prima necessità sono arrivate. Non solo: anche il New York Presbyteri­an Hospital, dove la situazione è più critica, ha beneficiat­o di aiuti concreti.

Sveglia alle 4

L’ex nuotatrice si sveglia alle 4 del mattino ed è preoccupat­a per il lavoro in trincea. «Mi aspetto un’ondata di casi nei prossimi giorni. Mi ha toccato il cuore come il mondo del nuoto stia rispondend­o spontaneam­ente con tanti contributi. Ora la vera lotta è proteggerc­i tutti. A New York ero studente nel 2001 e mi sentivo impotente, avrei voluto aiutare gli altri ma in realtà non c’era molto che potessi fare. Qui invece per questa pandemia c’è molto da fare. Mi occupo di pazienti intubati a cui somministr­iamo l’anestesia generale e so che l’intubato è un potenziale rischio. Come anestesist­i siamo più a rischio di altri medici e faremo turni più lunghi dalla prossima settimana. Utilizzo 4 diverse paia di scarpe, spruzzo disinfetta­nti in tutti gli indumenti che a casa metto subito in lavatrice. So che tutto ciò che tocco può essere contagioso e faccio ogni cosa per proteggerm­i».

Ultima frazione

Sposata con 3 figli, Jenny ha nuotato anche a Stanford e già pensava «che un giorno avrei voluto prendermi cura di pazienti critici». Non a caso, quando nuotava in staffetta, a lei toccava sempre l’ultima frazione: per la sua affidabili­tà. «Jenny sapeva di poter fare la differenza - ricorda la Maurer e sapeva come raggiunger­e l’obiettivo come adesso sa di poter aiutare le persone a guarire».

La calma olimpica della Thompson è un’ottima carta da giocare anche nelle corsie di ospedale: «In tanti vanno fuori di testa, io ho una mentalità sportiva e sappiamo che aiutandosi l’uno con l’altro possiamo salvare i malati. In fondo non c’è grande differenza tra aiutare una staffetta a vincere un oro olimpico o una squadra di medici, l’importante è fare gruppo». Per salvare persone, l’oro della vita.

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Nel 2004 La Thompson riceve il camice da medico dall’ex presidente Fina, Larfaoui

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