«Ecco il mio Pantani Così sensibile e solo»
Marco Palvetti, star di Gomorra, è l’interprete del Pirata in un film: «Non voleva schiantarsi»
Acasa di Marco Pantani. A Cesenatico. E’ qui che oggi il Giro d’Italia 103 sarebbe dovuto arrivare. Marco Palvetti non ha conosciuto il Pirata attraverso le gesta sportive («Avevo 10 anni quando vinse il Giro e il Tour, ma seguivo di più il calcio») e tantomeno di persona, ma si è calato nella parte per interpretarlo nel film in uscita a fine settembre per la regia di Domenico Ciolfi “Il caso Pantani – L’omicidio di un campione”. Napoletano di Ponticelli, è stato Salvatore Conte nelle prime due stagioni della serie culto Gomorra: ha studiato il Pantani uomo e può offrire uno sguardo inedito sulla parabola da Madonna di Campiglio in poi.
Immedesimandosi, che cosa ha condiviso con Marco?
«I suoi fantasmi. Le fratture interiori. Sono andato a cercare non dove sarebbe stato semplice trovare, perché Pantani era famoso. Ma nella solitudine, nei rapporti con se stesso e la bici. Con l’amore, l’ossessione, l’ambizione. E la paura».
E che idea si è fatto della sua vicenda?
«Ho trovato allo stesso tempo debolezza e forza, ambizione e la disillusione profonda di Marco, una impotenza davanti a un sistema che evidentemente lo voleva fuori da quello che era il suo ambiente. Come un muro altissimo tra te e ciò che più ami al mondo. Troppi scendono a compromessi ma altri preferiscono la propria dignità, e io questo lo condivido con Marco pienamente».
Non ha avuto responsabilità secondo lei?
«La responsabilità deriva dalla fragilità. Una fragilità che partiva, paradossalmente, dalla sua forza infinita. Io mi sono sentito come se fossi un suo amico, condividendo assieme un viaggio».
3 Qual è la definizione più adatta per Pantani?
«Non abbiamo tutto questo potere per definire. La definizione può rivelarsi non più di un vezzo. Noi possiamo osservare. Se mi chiede chi è stato Pantani, io lo vedo come un insieme di momenti, di stati d’animo, di emozioni. La sua storia è stata un insegnamento. Marco ha portato la sua vita nella direzione più difficile, quella della salita. Ma non voleva schiantarsi. Aveva una sensibilità potentissima».
Ha colto una dicotomia nella sua personalità?
«L’ho avvertito come incapace di farsi da parte davanti a un sistema malato, ma incapace pure di non farsi del male».
Quale messaggio le piacerebbe riuscisse a mandare il film? «Andare oltre la superficialità delle impressioni veicolate dai media. Pantani, “quello con le orecchie a sventola che arriva e corre”, o piuttosto “l’eroe tragico che ha i problemi con la droga”. No, non è questo! Vorrei che venisse fuori l’enorme umanità di Marco».