Italia-Germania
RIVERA! IL GOL INDIMENTICABILE UNA LEGGENDA NATA 50 ANNI FA
Quasi tutti ricordano dove erano, nel momento in cui hanno saputo del rapimento Moro o dell’attacco alle Torri gemelle. Nel calcio si può dire lo stesso per le partite che hanno travalicato i novanta minuti e si sono guadagnate un posto nella storia. Tra queste, certamente, c’è Italia- Germania 4-3. La partita. Anzi, per attenersi alla definizione inscritta nella targa che, allo stadio Azteca, ne ricorda lo svolgimento: «La partita del secolo». Sono passati cinquant’anni, mezzo secolo. Eppure quella notte con le finestre aperte, le luci dei televisori in bianco e nero che sfavillavano da ogni appartamento visibile, le urla che sovrapponevano costantemente gioia e delusione è ancora vivida nella memoria di chi ha avuto la fortuna di vivere quella davvero unica emozione calcistica. Nando Martellini, il telecronista di allora, aveva un eloquio sobrio, mai ridondante. Si ricorda spesso, lo ha fatto Caressa nel momento della vittoria del mondiale del 2006 e lo fa costantemente in chiave ironica la trasmissione tv «Propaganda», il suo «Campioni del mondo» ripetuto tre volte dopo il trionfo del 1982, ascoltato da una Italia insonne che si abbracciava in piena notte. Ma non si ricorda altrettanto spesso che, quella sera, Martellini si rese conto subito di ciò che stava accadendo e non lesinò aggettivi: «Una partita da antologia, tra le più belle, le più avvincenti, le più drammatiche del nostro football». Prima, al gol di Rivera, aveva detto nel microfono, come vinto dall’emozione: «Non ringrazieremo mai abbastanza i nostri giocatori per le emozioni che ci offrono». E sotto la sua voce se ne sentiva un’altra, non autorizzata forse dopo persino censurata che gridava in preda a un sacro furore: «Vinciamo! Vinciamo!». Era il regista Rai Mario Conti. Gianni Brera, nel raccontarla, «sfinito dall’emozione», lesse criticamente quella partita: «La memorabile partita è stata avvincente sotto l’aspetto agonistico e spettacolare: si è conclusa bene per noi, e questo è il suo maggiore pregio, ai miei occhi disincantati. Sotto l’aspetto tecnico-tattico, è da ricordare con vero sgomento. Sia gli italiani sia i tedeschi hanno fatto l’impossibile per perderla. Vi sono riusciti i tedeschi. Evviva noi! Errori ne sono stati commessi millanta…». Gioann Brera (fu Carlo) aveva ragione. Lucido come un entomologo aveva separato le emozioni dal giudizio critico e aveva randellato la nazionale italiana, rea, ai suoi occhi esperti, di inverecondi misfatti tattici.
Partita folle
La partita in effetti è folle. I tedeschi giocano con un numero esagerato di punte: Libuda, Held, Muller, Seeler, Grabowski, che vengono riforniti da due centrocampisti eccezionali, già protagonisti del mondiale del 1966. Uno è Franz Beckenbauer, architetto raffinato e dal bel portamento, che sarà costretto a giocare buona parte della partita con un braccio attaccato al collo, come un soldato della Prima guerra mondiale. Il secondo, per me, era un genio del calcio. Assai poco celebrato, come talvolta capita. Wolfgang Overath apparteneva a quel tipo di giocatori, tanta sostanza e poco fumo, che mal si addice ai riflettori adrenalinici della critica. Era, come il brasiliano Gerson, uno di quelli che canta e porta la croce. Per far divertire quelli lì davanti, gente come loro si doveva fare in sedici e depositare i polmoni scarichi alla fine di ogni match. E’ vero che è stata una partita folle. Ma c’erano tante cose in ballo, almeno per noi. Intanto la sfida con la Germania. Nel 1940, poco più di un mese prima della improvvida dichiarazione di guerra al loro fianco, avevamo sfidato e persino, incuranti delle conseguenze, battuto la nazionale hitleriana davanti a 65.000 spettatori assiepati sulle tribune di San Siro, per un incasso di 900.000 lire. In un tripudio di saluti romani e bandiere con la croce uncinata che garrivano al vento li avevamo battuti tre a due. Prima due gol azzurri ma, come disse con prudente deferenza il cinegiornale Luce numero 29, «la Germania parte gagliardamente alla riscossa» e pareggia. Ma poi Biavati, come Rivera all’Azteca, sistema la faccenda. Dopo la guerra avevamo incontrato i tedeschi solo quattro volte. Una, nel Mondiale in Cile, in competizioni ufficiali. Bisogna rendersi conto, parlando della sfida dell’Azteca, che dalla fine della Seconda guerra mondiale, allora, erano passati solo venticinque anni. Poco più di quanto è trascorso dall’attacco di Osama Bin Laden all’America. Era memoria fresca. L’8 settembre, l’occupazione, il disvelamento di Auschwitz. Ma la storia e la fiducia nel mondo che era nato «dopo», erano andate veloci. Ci si voleva mettere dietro le spalle tutto questo. Le ragazze tedesche che venivano a Rimini, la città più bombardata d’Italia, negli anni Sessanta erano la testimonianza di come si fosse girata pagina, come si fosse stati saggiamente capaci di non confondere Hitler con i tedeschi.
Che generazione
La nazionale italiana che scende in campo contro la Germania a Città del Messico è composta, per nove undicesimi, da ragazzi nati proprio durante la guerra. Solo Albertosi e Burgnich erano venuti al mondo l’anno precedente la dichiarazione di Palazzo Venezia. Fu una generazione di campioni straordinari. Vinsero un Europeo, ancora oggi l’unico conquistato, e arrivarono in finale nel 1970. La generazione precedente era stata eliminata al primo turno nel 1954 e non si era qualificata al Mondiale del ’58. Poi erano seguite le delusioni di Cile e Inghilterra, con la sanguinosa sconfitta patita con i sottovalutati coreani. «Corrono come Ridolini», si erano detti i tecnici italiani. Quella sera in Messico il calcio fu esaltato. Non tecnicamente, non tatticamente. In quell’universo forse le partite perfette sono quelle che finiscono con lo zero a zero. Ma nessuno le ricorda, tanto sono «giuste». Invece la notte del 17 giugno del 1970 qualcuno dall’alto tirò i dadi, sul prato dell’Azteca. E il calcio uscì di senno. Breve riassunto.
Tiraccio
Boninsegna spara un tiraccio che batte Maier all’ottavo del primo tempo. Poi noi , che siamo italiani e non olandesi, ci difendiamo, come solo noi sappiamo fare. Roberto Rosa