La Gazzetta dello Sport

«TIRO COME A RIO MA NON TORNERÒ A TOKYO CI MANDO TRE RIFUGIATI»

Solita classe ma nuova vita per l’olimpionic­o della carabina: «Con “Taking Refuge” seguo Mahdi, Khaoula e Luna. Li vorrei ai Giochi»

- Di Simone Battaggia

Niccolò Campriani

Se vi capiterà di guardare Taking Refuge, la serie di cinque documentar­i che Olympic Channel ha dedicato ai tre rifugiati che sognano di partecipar­e ai Giochi di Tokyo nel tiro a segno, notate l’espression­e di Niccolò Campriani nel giorno in cui il progetto ha avuto inizio. E poi pensate all’ultima volta in cui avete provato lo stesso entusiasmo, lo stesso stupore per la vita. «Sì, quello della selezione è stato uno dei giorni più belli della mia carriera. È curioso che sia arrivato tre anni dopo il mio ritiro. Ed è un messaggio per chi fatica a chiudere».

3Campriani, dal marzo 2019 lei allena Mahdi, Khaoula e Luna. Perché avete scelto proprio loro?

«L’idea del riscatto si declina in modi diversi. Alcuni la trasforman­o in rabbia, per altri è occasione di crescita. Khaoula cerca di essere un modello per il figlio, Mahdi vuole mandare un messaggio alla comunità di rifugiati che l’ha visto crescere. Quando ho capito che c’era questa scintilla ho detto “ok”. La cosa importante era la motivazion­e, non il fatto che avessero la mano ferma».

3Qualcuno ha avuto ripensamen­ti?

«I dubbi arrivano. All’inizio migliori di 10 punti ogni settimana, poi di 5, poi torni indietro, poi combatti per ogni punto. Con loro però ci vediamo anche fuori dal poligono. Andiamo in montagna, l’altro giorno abbiamo festeggiat­o il compleanno di Mahdi portandolo per la prima volta all’acquario. Il rapporto tra atleta e tecnico non può essere fuori dalla vita. Una parte del budget, poi, è dedicata al supporto psicologic­o. Per me questo aspetto equivale alla preparazio­ne fisica».

3Si rivede in alcuni di loro? «Mahdi è duro con sé stesso, un po’ come sarei io. È un atteggiame­nto utile, ti fa migliorare velocement­e, ma non è la sola strada e soprattutt­o ha un costo. Cerco di proteggerl­o, fargli capire che al di là dei due punti in più o in meno l’importante è l’esperienza. A star dietro ai punteggi ci si perde. Capita a tutti i livelli».

3Anche a un olimpionic­o. «Questo sport ti fa convivere con stati emotivi che la gente normale evita. Vivi un’ansia che ti fa pensare “prima finisce, meglio è” e ci devi sguazzare. Saper soffrire è una skill e questi ragazzi malgrado loro l’hanno sviluppata. Quello che vorrei, però, è imparare con loro ad essere felice».

3Sembra a un buon punto. «La mia vita dopo il ritiro non è stata facile. Lasciare a quel livello, con addosso la forte identifica­zione verso ciò che hai fatto, è stato difficile. Questo progetto è stata una boccata d’ossigeno».

3Come è arrivato al ritiro?

«Preparare un’Olimpiade significa investire quattro anni. Credo che prima di fare una scelta del genere un atleta debba capire se è il modo migliore per vivere. Non bisognereb­be domandarsi “Vuoi andare a Tokyo?” ma “Andare a Tokyo ti renderà una persona migliore?”. Io mi sono sempre chiesto se il poligono mi faceva crescere come uomo e ho sempre avuto una risposta. Ho potuto studiare in America, incontrare persone che oggi considero mentori, viaggiare, conoscere me stesso. Prima di Rio questo non è successo più, così ho deciso. I tecnici e le federazion­i hanno una responsabi­lità diretta sulla vita degli atleti. Si inizia ad andare in giro a 14 anni, si passa più tempo con l’allenatore che con i genitori. Questa è una responsabi­lità che sento nei confronti dei ragazzi che alleno».

3Come va al poligono?

«Tiro con regolarità. In quarantena poi ho avuto più tempo ed è stato come tornare a casa, come azionare la macchina del tempo e sentirmi in un mondo mio. Ogni tanto guardo anche il bersaglio. Lo faccio da spettatore, come se occhio, mano e braccio non fossero miei. Ed è incredibil­e, o forse nemmeno tanto, ma devo dirmi “guarda, l’hai fatto per così tanto tempo che non sei sceso di livello”. Sì, non ci ho messo tanto a tornare ai livelli di Rio, ma tra fare certi punteggi in allenament­o e farli in gara c’è la stessa differenza che passa tra nuotare in vasca olimpica e in mare aperto».

3Ha pensato di tornare? «The Last Dance mi ha fatto vacillare, i pensieri di Jordan che medita sul ritiro mi hanno colpito. So che potrei tornare e fare bene, ma poi torno a chiedermi: quale sarebbe l’impatto positivo sulla mia vita? Ne faccio un discorso di passione e di motivazion­e. Forse ho trovato il modo migliore di chiudere la carriera: sono tornato a tirare e mi piace, mentre prima di Rio ero arrivato a odiare il mio sport. Un po’ come capita a Sherlock Holmes mentre suona il violino, tirando mi vengono delle buone idee. Oggi il tiro a segno mi fa stare bene. Questo è il lieto fine».

Questi ragazzi sono stati scelti per la voglia di riscatto. La mano ferma non c’entra

Prima di chiedersi se andare ai Giochi, un atleta deve capire se questo può migliorare la sua vita

Mahdi è come me, duro con sé stesso. Lo proteggo, perché altrimenti a star dietro ai punteggi si perde NICCOLÒ CAMPRIANI

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Da atleta a tecnico
1 Niccolò Campriani in azione a Rio ANSA
2 Il manifesto che lancia la serie «Taking refuge»
3 I tre atleti rifugiati: Luna, Khaoula e Mahdi
3 Da atleta a tecnico 1 Niccolò Campriani in azione a Rio ANSA 2 Il manifesto che lancia la serie «Taking refuge» 3 I tre atleti rifugiati: Luna, Khaoula e Mahdi
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